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   L’ANPI Voghera commenta

Abbiamo voluto dedicare questa pagina web alle prese di posizione, ad eventuali polemiche verso fatti ed episodi accaduti in città o nella nostra provincia.
L’obbiettivo è quello di sollecitare dibattiti, evidenziare avvenimenti e notizie, comunicare la nostra posizione sulla vita sociale e culturale nazionale ed iriense.

 

- 27 Marzo 2014 -

Riforme Costituzionali… Perché?

Sul ritorno delle modifiche costituzionali pubblichiamo due interventi, presenti sul sito www.Libertà e Giustizia.it, dei costituzionalisti Alessandro Pace e Gaetano Azzariti




Abolire il senato? Prima del come vediamo il perché

di Gaetano Azzariti, 25 marzo 2014

Nella proposta di riforma del Senato formulata dal governo la questione di fondo appare essere la modalità di composizione (da una Camera elettiva si passerebbe a un organo composto da membri di diritto, eletti di secondo grado e nominati dal Capo dello Stato). Solo in seconda battuta ci si interroga sulle funzioni del «nuovo» Senato. Dovrebbe essere esattamente il contrario. Solo una volta definito il «tipo» di bicameralismo si può stabilire come devono essere selezionati i suoi componenti. Da anni sia in sede scientifica sia in quella politica si discute di come «differenziare» i ruolo di Camera e Senato. Da ultimo, è stata la sfortunata commissione dei saggi istituita dal governo Letta a fornire un quadro delle possibili alternative. Bastava assumersi la responsabilità politica di scegliere e proporre al Parlamento un disegno di legge coerente.
Così non è avvenuto. Forse è la volontà di accelerare i tempi scrivendo un testo poco meditato, probabilmente la volontà di non utilizzare nulla di quel che era stato fatto dal precedente governo, magari l’esigenza ritenuta prioritaria di comunicare un solo messaggio semplice e popolare: non si pagano più gli stipendi dei senatori. Come che sia il risultato è la definizione di un organo fragile e politicamente inutile. La nuova «Assemblea delle autonomie» (il nome attribuito all’organo che andrebbe a sostituire il Senato), esclusa dal circuito della fiducia al governo, dovrebbe essenzialmente limitarsi ad esprimere pareri sulle leggi già approvate (rimarrebbero bicamerali solo le leggi costituzionali). Un parere che può essere facilmente superato dalla Camera, anche nei casi più delicati, essendo richiesta al massimo la maggioranza assoluta, vale a dire un quorum facilmente raggiungibile (con l’Italicum potrebbe far da sola anche la singola lista che ottiene il premio).

Eppure, in questo caso ben più che non sulla legge elettorale, ci sarebbe lo spazio per un confronto. Si può contare, infatti, su un dato di partenza ormai pressoché unanimemente riconosciuto: l’attribuzione solo alla Camera del rapporto fiduciario con il governo. Ma proprio l’esclusione del Senato dal circuito fiduciario impone di far valere — rafforzandole — le altre funzioni che una «seconda Camera» può svolgere. Il Parlamento, come è noto, non esercita solo la funzione legislativa (ed anzi, da ormai molto tempo questa è in crisi), ma anche funzioni di controllo, di garanzia, d’inchiesta, di raccordo con le istanze sovranazionali e con quelle locali. A fronte dell’importanza di tali funzioni si registra un progressivo deterioramento della capacità di un loro effettivo esercizio. Poche leggi d’iniziativa parlamentare e prevalentemente di microlegislazione (lasciando al governo la legislazione di principio e quella politicamente più rilevante), scarsa capacità di controllo sull’attività del esecutivo, indeterminatezza dell’attività di garanzia, perdita di senso e di forza delle inchieste parlamentari, marginalità dell’organo della rappresentanza politica nei rapporti con le istanze e gli organi sovranazionali, europei in particolare, scarsa consistenza dei rapporti istituzionali tra Parlamento ed autonomie locali.

Quale migliore occasione di una riforma del bicameralismo perfetto per porre la questione del rafforzamento del sistema parlamentare. Non dico che sarebbe facile individuare un equilibrio corretto tra Camera e Senato nell’ipotesi in cui si volesse seriamente differenziare il bicameralismo, e il presupposto condiviso (la sottrazione al Senato del rapporto fiduciario) non esenta dalla necessità di un attento lavoro di sintesi e scelta, probabilmente foriera di divisioni e conflitti tra le forze politiche, nonché tra le opinioni della cultura costituzionalistica. Nessuno può pensare che mettere le mani su una Costituzione sia un’operazione indolore e soprattutto priva di rischi. Ma almeno dovrebbe essere chiara la direzione di marcia e l’obiettivo comune. Sono molti anni che si denuncia la debolezza progressiva del Parlamento e la ricerca di una sua centralità è la vera scommessa costituzionale da raccogliere.
Così una scelta tra le diverse funzioni prima elencate dovrebbe essere necessariamente compiuta, ridefinendo le competenze tra le due Camere. Non solo. È proprio a seguito — e in conseguenza — di queste decisioni di sistema che potranno anche coerentemente definirsi i criteri di composizione della «seconda Camera». Ad esempio, riservare la titolarità del rapporto di fiducia con il governo ai soli deputati non comporta inevitabilmente l’esclusione dell’altro ramo anche dalla funzione legislativa, tuttavia dovrebbe essere chiaro che nel caso permanesse la concorrenza nella potestà legislativa si dovrebbe differenziare la fonte di legittimazione del Senato. Non avrebbe altrimenti senso favorire la formazione del governo, semplificando l’ottenimento della fiducia adottando sistemi elettorali premiali, e poi confermare le logiche duali del bica-meralismo nel momento dello svolgimento dell’attività legislativa.

Se dunque si vuole mantenere un’ampia competenza legislativa per il Senato (le leggi costituzionali farebbero comunque caso a se) può essere condivisa l’idea di un’elezione di secondo grado espressa direttamente dagli enti territoriali. Si tratterebbe, in caso, di valutare i meccanismi in concreto, personalmente sono molto dubbioso circa la possibilità di una composizione mista fatta da presidenti di Regione, alcuni consiglieri regionali e rappresentanza di sindaci. Non mi pronuncio poi sulla incomprensibile indicazione contenuta nel disegno di legge del governo di far nominare un nutrito gruppo di senatori (ben 21) dal Capo dello Stato per un lasso di tempo di sette anni: una proposta che non vedo come possa conciliarsi con alcuno dei possibili modelli di bicameralismo. A meno di non voler richiamare — peraltro impropriamente — lo Statuto albertino. Così anche la scelta di rafforzare la funzione di partecipazione e raccordo degli enti territoriali all’attività non legislativa dello Stato centrale può far ritenere idonea la soluzione della rappresentanza indiretta.
Se, invece, com’è nella proposta del governo, il Senato (ovvero l’«Assemblea delle autonomie») si dovesse limitare ad esprimere pareri sull’attività legislativa monopolizzata dalla Camera, l’elezione indiretta non avrebbe grande significato. Se non quello di uccidere la seconda Camera per sostituirla con una «Conferenza Stato, Regioni autonomie locali», dai poteri meramente consultivi. Una tale “Conferenza” non avrebbe però nessun bisogno di essere collocata in Costituzione, tant’è che già opera, con competenze diverse, nel nostro ordinamento. Più coerente sarebbe allora indicare la via maestra — che ha una sua nobile tradizione di pensiero — del monocameralismo integrale.

Diverso ancora sarebbe se si optasse per una distinzione più radicale, la soluzione preferibile. Lasciando alla Camera sia il rapporto fiduciario sia gran parte dell’attività legislativa (fatte salve, oltre alle leggi costituzionali, le leggi in materia di libertà e diritti fondamentali delle persone), accentrando sul Senato le funzioni di controllo, di garanzia, d’inchiesta, di raccordo con le istanze sovranazionali. In tal caso però, il criterio di composizione dovrebbe essere quello più congeniale alla rappresentanza di tutte le forze politiche e i gruppi sociali. Un sistema che favorisca le minoranze, che svolga un prezioso ruolo di integrazione e di riavvicinamento dei soggetti sociali alle istituzioni rappresentative. L’elezione a suffragio universale con sistema proporzionale sarebbe il modo di composizione più adeguato. Magari riducendo il numero di senatori. Un Senato che, anche grazie alla sua piena e diretta legittimazione democratica, sia in grado di bilanciare la governabilità assicurata alla Camera.

 

I limiti di un Parlamento delegittimato*

di Alessandro Pace, 26 marzo 2014

Sembrerebbe che le istituzioni parlamentari abbiano dimenticato di essere state delegittimate dalla dichiarazione d’incostituzionalità del Porcellum. Dal canto suo, il Presidente del consiglio, non essendo stato eletto e quindi non essendo personalmente coinvolto dagli effetti della sentenza n. 1 del 2014, non ne tiene affatto conto tant’è vero che il Ministro per i rapporti col Parlamento ha dichiarato che i programmi del Governo Renzi coprono l’intera legislatura.
Ora è bensì vero che nella sentenza è scritto che l’incostituzionalità delle varie norme del Porcellum «non tocca in alcun modo gli atti posti in essere in conseguenza di quanto stabilito durante il vigore delle norme annullate, compresi gli esiti delle elezioni svoltesi e gli atti adottati dal Parlamento eletto», ma questo non significa che la sentenza non coinvolga la legittimità dell’attuale Parlamento. Se la Consulta, grazie al principio della necessaria continuità delle istituzioni, ha “delimitato” gli effetti “retroattivi” della pronuncia d’incostituzionalità e, quanto al futuro, ha esplicitamente previsto che le Camere elette nel 2013 possano approvare una nuova legge elettorale, non ha però detto che esse possano continuare ad operare come se nulla sia successo. Mi rendo conto che la situazione politica, economica e finanziaria richiede che un governo ci sia, ma questo non significa che l’attuale Parlamento possa far tutto senza limiti modali, di contenuto e di tempo.

Tento di spiegarmi meglio con un paio di esempi di ciò che un Parlamento delegittimato non potrebbe né dovrebbe mai fare.
Limiti modali. La Corte costituzionale ha detto chiaramente, nella citata sentenza, che una legge elettorale, per essere costituzionalmente legittima, pur perseguendo l’obiettivo della stabilità e dell’efficienza del Governo, non deve però determinare una compressione della funzione rappresentativa e dell’eguale diritto di voto. Per contro il d.d.l. 1385 attualmente all’esame del Senato prevede un sistema elettorale avente una base proporzionale con una pluralità irrazionale di soglie per l’accesso dei partiti (4,5 per cento, 8 per cento, 12 per cento) che premia le coalizioni senza tener conto dell’apporto dei partiti che non superino il 4,5 per cento; prevede un premio di maggioranza che tale non è, essendo la soglia del 37 per cento troppo lontana dal 50,1 per cento (che è il valore cui commisurare la legittimità del “premio”); prevede la possibilità di ciascun candidato di presentarsi fino ad un massimo di otto collegi (un vero e proprio specchietto per gli allocchi); prevede, tra l’altro, un artificioso sistema di trasformazione dei voti in seggi che, essendo effettuato in sede nazionale, fa sì che dei voti espressi in sede locale in favore di una data lista si gioverà, in definitiva, una lista votata in una sede diversa.

Limiti di contenuto. In un articolo pubblicato su queste pagine all’indomani del comunicato della Consulta che annunciava l’incostituzionalità del Porcellum, scrissi che le attuali Camere, ancorché politicamente delegittimate, ferma restando l’attività
di controllo e quella legislativa “ordinaria” politicamente rilevante, avrebbero potuto impegnarsi in talune “necessarie” revisioni costituzionali (come la diminuzione del numero dei parlamentari e la revisione dell’art. 117 Cost. per ciò che riguarda le competenze legislative regionali). Non però le revisioni che avrebbero potuto modificare la forma di governo. Se infatti è discutibile – lo ammetto – che un Parlamento delegittimato possa approvare talune leggi di revisione costituzionale, come io stesso ho scritto (e me ne pento), è però assolutamente inconcepibile che un Parlamento delegittimato possa incidere sulle strutture portanti della nostra democrazia parlamentare. Per contro il Governo Renzi si appresta a presentare un disegno di legge costituzionale che elimina il Senato e lo sostituisce con un’Assemblea delle autonomie, composta da presidenti delle regioni e delle province autonome di Trento e Bolzano, da due membri eletti dai Consigli regionali e da tre sindaci per ogni Regione.

Con ciò non voglio sostenere che il bicameralismo paritario non possa o non debba essere superato. Non però da “questo” Parlamento e in maniera così poco meditata. Non intendo entrare nel merito di tale preannunciata riforma perché ciò significherebbe in qualche modo prenderla sul serio. Ciò non di meno non posso non osservare che se l’obiettivo perseguito dal Governo Renzi è di eliminare dal bilancio dello Stato la spesa costituita dall’indennità dei 315 senatori, sarebbe preferibile ridurre a 100 il numero dei senatori e a 500 il numero dei deputati, ma mantenere l’elezione diretta dei senatori.
Quale legittimità democratica, senza l’elezione popolare, avrebbe infatti l’Assemblea delle autonomie per partecipare col suo voto all’approvazione delle leggi di revisione costituzionale? E poi, pur tenendo conto delle attribuzioni assegnate all’Assemblea delle autonomie in materia legislativa dal “nuovo” art. 70 della Costituzione, se essa, come previsto, dovrà esprimere un mero “parere” su tutti i disegni di legge approvati dalla Camera dei deputati, quanto tempo rimarrebbe ai suoi componenti per svolgere, nel contempo, anche i compiti di presidente regionale, di consigliere regionale e di sindaco? E infine, nel ridurre l’apporto della seconda Camera a mera funzione consultiva, non si dimentica che il bicameralismo “legislativo” ci ha ripetutamente salvati, e non solo nelle ultime legislature, da modifiche esiziali del nostro ordinamento?

Limiti temporali. E’ assolutamente disdicevole che il Governo Renzi ritenga di poter programmare l’attività del Governo per tutta la legislatura. Non si rende conto che il solo affermarlo implica una violazione del giudicato costituzionale contenuto nella sentenza n. 1 del 2014 e la conseguente menomazione delle attribuzioni costituzionali della Corte costituzionale?



*Il testo riproduce, con minime aggiunte dell’autore, l’articolo pubblicato su la Repubblica del 26 marzo 2014.