+ ANPI Voghera | Il fantasma dei mongoli

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«Sotto la nostra mitragliatrice abbiamo contato 30-40 cadaveri, gente venuta all’assalto all’arma bianca a due passi dal fuoco»

 

Lo stesso giorno, all’alba, "Arturo" torna a Zavattarello con due compaesani, il Barba e Giuannin, per avere notizie di parenti e amici della Brigata. La gente comincia a raccontare dei «vandali» e della loro fame di donne: «Su una signora di Genova che stava in una villa all’entrata del paese erano passati sopra in 27». Ma i violentatori non sono solo mongoli, i partigiani raccolgono testimonianze su fascisti «di fuori» che partecipano agli stupri e la rabbia contro l’italiano è ancora più grande. Tra la popolazione, invece, è grande solo il terrore. Colonne di civili scappano di qua e di là, con carretti, a piedi, per strada o nei boschi.


I nazifascisti avanzano. Il 28, a Coli e Peli, si combatte la più grande battaglia di quella zona. «Lì ho visto delle cose inimmaginabili», riprende Del Boca. «Questi mongoli erano ubriachi, abbiamo visto in seguito che avevano botti di vino cotto sui carri. Sotto la nostra mitragliatrice abbiamo contato 30-40 cadaveri, gente venuta all’assalto all’arma bianca a due passi dal fuoco. Abbiamo resistito una decina di ore e poi ci siamo ritirati, non c’era altra possibilità. Da quel momento i mongoli presero possesso della valle».
Si abbattono ancora sui civili di Peli, Cornaro, Pescina, Fossoli, Costiere, Averaldi. Scrive il partigiano Michele Tosi nel suo diario: «La popolazione civile portò senza dubbio il peso più gravoso. Alla gente di Peli rimase solo quel poco di viveri che era riuscita a nascondere sotto letamai; i nuovi vandali avevano rispettato solo quelli».

 

Dal primo dicembre il rastrellamento si concentra sulle colline di Val Tidone, Val Trebbia e Val Nure, mentre i garibaldini dell'Oltrepò tenteranno un’ultima resistenza attorno a Varzi, a Capannette di Costola, il 14 dicembre. È l’ultima sconfitta per cui pagheranno anche le donne di Giovà, Pei e Torre, che vengono fatte sfilare perché «ogni belva possa farne scelta», scrive nel suo diario il partigiano Luigi Campanini. Nessuna verrà risparmiata: «Donne di 70 anni e più come spose in evidente stato interessante vengono violate».
La rappresaglia si chiude con la fucilazione di due partigiani polacchi della Cornaggia a San Sebastiano. Gli uomini della Turkestan si dirigono poi in Val Borbera, nell’alessandrino.

«Ragazze e maritate sono ripetutamente violentate mentre il padre, i fratelli, il marito sono tenuti a bada con le armi in pugno», scrive pochi giorni dopo un medico dell’ospedale di Rocchetta Ligure, citato da Giampaolo Pansa in "Guerra partigiana tra Genova e il Po" (Laterza 1998): «Quanti sono questi tristissimi casi? È difficile precisare, perché una gran parte delle donne, passato lo sgomento per l’obbrobrioso oltraggio, ha cercato di tenere nascosta l’onta subita. Certo però sono molti».

Intanto comincia a nevicare, tanto ma tanto che il gennaio 1945 sarà ricordato negli annali. Tutta la memorialistica è piena di traversate a piedi quasi nudi, rifugi notturni sotto qualche metro di neve. Ne muoiono assiderati in tanti, ne portano i segni tutti. Nello sbandamento generale, rimangono sui monti quelli che ancora hanno un distaccamento o che non sanno dove andare.

 

«Elia non era un fantasma, era una persona con cui parlavo, con cui ho discusso di progetti, dell’avvenire»

 

"Arturo" torna a casa a Zavattarello e nasconde alcuni dei suoi, con l’aiuto delle sorelle e dei fratelli, nelle buche già pronte alla bisogna. Rimarranno sotto terra un mese.
Del Boca rimane sul Penice tra pattuglie e sortite. Giù in valle, i presidi controllati da mongoli e fascisti a Pianello, Bobbio, Godiasco, Zavattarello, Varzi e sul Penice, sono tranquilli. Pensano di aver fatto piazza pulita.
«Un giorno di dicembre inoltrato ero in perlustrazione con tre uomini nella gola di Barberino, vicino a Bobbio, un punto perfetto per un imboscata», racconta ancora Angelo Del Boca «quando avvistammo un carro con quattro mongoli che salivano tranquilli cantando. Scendemmo in strada, tirai una raffica in aria e nessuno reagì. Li catturammo subito. Alla guida del carro c’era un certo Elia, un georgiano che comandava il gruppo. lo parlavo in italiano, lui in francese perché era stato in Francia a combattere contro il maquis. Mi infastidì moltissimo il fatto che portasse al dito un anello con un nome di donna francese. Evidentemente lo aveva sfilato a un cadavere».
È lo strano e inconsapevole inizio di un rapporto umano e poi di un’amicizia che durerà molti anni.
«Elia era un maestro di scuola di Tbilisi, un uomo colto e intelligente, di cinque o sei anni più vecchio di me. Aveva un librettino in cui segnava le parole italiane, con la fonetica e tutto. Era stato preso prigioniero dai tedeschi nella battaglia di Melitopol, nel 1941: "Siamo tutti dei poveri disgraziati, ci siamo arruolati perché eravamo prigionieri", mi disse, "l’alternativa era la morte nei campi di concentramento tedeschi. Molti tra noi sono anche anticomunisti, io no". Elia non era un fantasma, era una persona con cui parlavo, con cui ho discusso di progetti, dell’avvenire».

Ci si può fidare del proprio istinto in una circostanza come quella? Angelo chiede a Elia di scrivere un volantino in cirillico che inviti i georgiani alla diserzione. Di notte lo accompagna da solo al campo "mongolo" per distribuirlo.
«Ho rischiato la vita, ma a quell’età e in quella situazione mi sembrava l’unica cosa da fare. Ho riposto bene la mia fiducia».
Nel giro di dieci giorni cinquanta soldati, quasi tutti georgiani, si uniscono ai partigiani.
«Li abbiamo riuniti in una nuova formazione, comandata dallo stesso Elia. Hanno dato prova di grande valore in numerosi combattimenti. Uno dei migliori mitragliatori sembrava quasi cinese, non so di dove fosse esattamente, ma usava la mitragliatrice che chiamavamo "la sega di Hitler" come fosse stato un giocattolo. Riusciva a tenerla in braccio mentre tutti gli altri dovevano appoggiarla a terra».

Elia e i suoi combattono e si adattano alla partigianeria con qualche perplessità: «Voi non sapete fare la guerra, siete troppo corretti, per spaventare il nemico dovreste tagliare teste ed esporle sul muro del paese», dice un giorno ad Angelo nel pressi di Bobbio. Dopo la Liberazione, Elia sarà uno dei pochi "mongoli" che si salverà e continuerà per decenni a scambiare lettere, auguri e qualche visita con l’uomo che lo aveva catturato.

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