L’ANPI Voghera commenta
Abbiamo voluto dedicare questa pagina web alle prese di posizione, ad eventuali polemiche verso fatti ed
episodi accaduti in città o nella nostra provincia.
L’obbiettivo è quello di sollecitare dibattiti, evidenziare avvenimenti e notizie, comunicare la nostra posizione sulla vita
sociale e culturale nazionale ed iriense.
- 06 Maggio 2009 -
Identikit: Il grande intermediario
«Partigiani neri, un duce tenerone e leggi razziali emanate
solo come atto dovuto». Queste alcune
"chicche",
o meglio "pillole storiche" del Dell’Utri-pensiero.
Ma vediamo più da vicino chi è questo nuovo
"vate della Storia".
L’11 dicembre 2004 il senatore Marcello Dell’Utri è stato
condannato dalla seconda sezione del tribunale di
Palermo alla pena di 9 anni di reclusione per il
reato di concorso esterno in associazione mafiosa.
Una sentenza pesante, giunta a dieci anni dall’iscrizione
nel registro degli indagati dell’imputato, per un processo
a dir poco complesso: sette anni di dibattimento, 257
udienze, centinaia di testimoni ascoltati, 12 giorni di
camera di consiglio per raggiungere il verdetto,
1800 pagine di motivazioni.
E per ora siamo solo al primo round. Prima di avere la
parola fine su questa complicata vicenda ci vorranno
diversi anni: ci sarà l’Appello, quasi certamente un
ulteriore ricorso in Cassazione, e non è detto che finisca
lì. Per il principio di presunzione di innocenza,
il sen. Dell’Utri deve essere considerato non colpevole
fino al verdetto definitivo.
Tuttavia, avendo ben chiara tale premessa, riteniamo che
questa sentenza - solo un passaggio intermedio sulla
strada che porterà alla verità processuale - meriti di
essere divulgata e conosciuta, fondamentalmente, per
tre motivi. Primo, perché riguarda un uomo al centro di
alcune delle vicende politiche e imprenditoriali più rilevanti
degli anni 80 e 90 e al culmine della sua parabola umana
e professionale (non un ex potente, come, per esempio,
era ormai Giulio Andreotti a metà degli anni 90).
Secondo, perché si fonda non solo su dichiarazioni di pentiti, ma su una serie di fatti, di
ammissioni dello stesso imputato, di documenti scritti, fotografici, filmati difficilmente contestabili
(al limite diversamente interpretabili). E terzo, perché fornisce uno spaccato incredibilmente
nitido di come la mafia e il potere "legale" (politico, finanziario, economico) si tocchino,
interagiscano e si nutrano a vicenda grazie ad alcune figure di "raccordo", solitamente
personaggi insospettabili, ben noti agli studiosi del fenomeno mafioso e ai sociologi, ma sempre
molto abili a districarsi tra le maglie del processo penale.
Amicizie pericolose
Le motivazioni della sentenza dipingono uno scenario articolato, all’interno del quale
Dell’Utri
gioca sempre lo stesso ruolo: quello del
mediatore tra gli interessi di
"Cosa Nostra" e quelli del
grande imprenditore del Nord (e principale uomo politico della cosiddetta
seconda Repubblica)
Silvio Berlusconi. Un ruolo ambiguo, che
Berlusconi in parte avrebbe subito, e del quale, in
parte, si sarebbe avvantaggiato. Ma
Dell’Utri com’è entrato in contatto con la
mafia?
Principalmente attraverso
due amicizie pericolose: quella di
Gaetano Cinà, presunto mafioso della
famiglia del quartiere di Malaspina - imparentato tramite la moglie con boss del calibro di
Stefano Bontate e
Mimmo Teresi (boss di
Santa Maria del Gesù) - coimputato al medesimo
processo per
associazione mafiosa e
condannato a sette anni di reclusione; e quella di
Vittorio Mangano (deceduto nel
2000),
mafioso della famiglia di Porta Nuova, entrato ed uscito dal
carcere più volte tra gli
anni 70 e
80 per diverse imputazioni. Amicizie strette a
Palermo nei primi
anni 70 nell’ambiente della squadra di calcio dilettantistica della
Bacigalupo, nella quale
Dell’Utri
svolgeva l’attività di allenatore e di direttore sportivo.
Sono questi due dei nomi più importanti che segnano il processo
Dell’Utri. Perché furono,
assieme a lui, gli attori principali dell’avvicinamento della
mafia a
Berlusconi.
Il Cavaliere poteva servire
Sono diverse le ragioni per cui
Stefano Bontate (ai vertici di
"Cosa Nostra" negli
anni 70)
e i suoi sodali erano interessati al
Cavaliere.
Innanzitutto a scopo di estorsione.
Berlusconi era già un importante costruttore e il suo
patrimonio faceva gola alla
mafia.
Ma non solo. Tra la seconda metà degli
anni 70 e primi
anni 80 "Cosa Nostra" accumulava
ingenti somme di denaro attraverso molteplici attività illecite, ma in primo luogo grazie al
businness del narcotraffico. Necessitava quindi di canali sicuri di riciclaggio. Un imprenditore in
espansione come
Berlusconi, che stava inventando la televisione commerciale, e che
presumibilmente aveva bisogno di grandi somme di denaro, poteva, nell’ottica dei
mafiosi,
servire allo scopo. Non esiste la prova che
Berlusconi, entrato in contatto con
"Cosa Nostra"
come
«vittima», abbia fatto buon viso a cattivo gioco e si sia prestato come
«riciclatore»,
accettando
"Cosa Nostra" come socio occulto della sua avventura imprenditoriale.
Tuttavia, i periti dell’accusa e della difesa non sono stati in grado di ricostruire l’origine
di circa
113 miliardi di vecchie lire affluiti nelle
Holding Fininvest tra il
1975 e il
1983
(vale a dire circa
250-300 milioni di euro attuali) e dei quali non è stato possibile
ricostruire l’origine. Il perito della difesa, il
dott. Iovenitti, ha dichiarato che alcuni di quei
finanziamenti sono inspiegabili e
«potenzialmente non trasparenti».
I timori per l’Anonima sequestri
Ma quando inizia l’avvicinamento tra
Berlusconi e la
mafia?
Nel
1974 Dell’Utri, nonostante la recente promozione negli uffici della direzione generale di
Palermo della
"Sicilcasse", si dimette per trasferirsi nel capoluogo lombardo dall’amico
Berlusconi (conosciuto all’
Università Statale di
Milano) e diventare il suo
segretario particolare.
Deve seguire i lavori di ristrutturazione della villa di
Arcore, ma il vero problema che assilla il
Cavaliere in quel periodo è quello della
sicurezza: teme, per sè e la sua famiglia, di essere,
in quanto imprenditore lombardo emergente, nel mirino dell’
"Anonima sequestri".
Timore fondato visto che tra il
1972 e il
1979, nel milanese, vengono perpetrati oltre
70 rapimenti a scopo di estorsione. Per far fronte a tale minaccia, secondo i giudici, inizia, il
rapporto con
"Cosa Nostra" e inizia a delinearsi il ruolo di
Dell’Utri.
Questi infatti, su suggerimento di
Cinà, propone a
Berlusconi di assumere ad
Arcore,
come fattore, proprio
Vittorio Mangano. Il quale, naturalmente, non si sarebbe limitato alla cura
del parco e degli animali della villa, ma avrebbe rivestito il ruolo di garante di
"Cosa Nostra"
presso
Berlusconi.
Secondo il
pentito Di Carlo (il cui racconto è confermato da altri collaboratori) la decisione di
assumere
Mangano viene presa dopo un incontro avvenuto a
Milano tra
Berlusconi, Mimmo
Teresi e il
super boss Stefano Bontate, a cui partecipa personalmente lo stesso
Di Carlo.
Al di là dei racconti dei collaboratori, tuttavia, non esistono riscontri ulteriori di questa riunione.
Quel che è certo è che grazie a
Cinà e a
Dell’Utri,
Mangano si trasferisce ad
Arcore. È plausibile
che la personalità criminale dello stalliere fosse ignota a
Dell’Utri? Secondo i giudici no:
Mangano, durante il suo soggiorno a
villa San Martino viene arrestato per scontare una
condanna per truffa. Tuttavia, dopo il suo rilascio torna tranquillamente al suo posto di lavoro e
non viene licenziato. Non solo, un amico di
Berlusconi, il principe
D’Angerio, subisce un
tentativo di rapimento uscendo dalla villa dopo una serata con il
Cavaliere. I giornali locali
cominciano a parlare del siciliano residente ad
Arcore.
Solo allora - è il 1976 -
Mangano, nonostante che
Fedele Confalonieri e
Dell’Utri avessero
tentato di dissuaderlo, decide di lasciare
Berlusconi.
Tuttavia, anche dopo questi episodi, i rapporti con
Mangano sarebbero continuati per molti anni,
almeno fino al
1993-1994.
Lo "stalliere" ritorna
Nel
1980 Mangano viene arrestato da
Giovanni Falcone nell’ambito di indagini sul traffico di
stupefacenti tra
Italia e
Usa. Poco prima del suo arresto, la
Criminalpol di
Milano
intercetta una telefonata tra l’
ex fattore e
Dell’Utri in cui il primo dice al secondo di avere un
affare da proporgli e di
«avere il cavallo che fa per lui».
Molto si è discusso sul significato di questa espressione. In una intervista concessa pochi giorni
prima di essere ucciso,
Paolo Borsellino dichiarò che
Mangano, parlando di cavalli, faceva
riferimento a partite di droga.
Quel che è provato è che dopo l’allontanamento da
Arcore Dell’Utri continua ad avere rapporti
con il
mafioso di Porta Nuova. E che questi rapporti continuano anche dopo il lungo periodo di
carcerazione degli
anni 80.
Mangano infatti ricompare prepotentemente in questa storia circa
20 anni dopo i primi contatti
con
Dell’Utri e
Berlusconi. Quando
Berlusconi decide di entrare in politica e la costituzione
di
"Forza Italia" è già in una fase operativa, l’
ex stalliere, secondo i
pentiti Cannella e
Calvaruso, contatta
Dell’Utri in nome e per conto di
"Cosa Nostra", che, dopo la caduta della
Prima Repubblica, è in cerca di nuovi referenti politici.
Dell’Utri nel
1993 non è più solamente il
segretario personale di
Berlusconi, il tramite per
raggiungere le sue aziende e il suo denaro. È diventato il suo
braccio destro politico,
l’
organizzatore di
"Forza Italia", ed è tra coloro che più si sono battuti per la discesa
in campo del
Cavaliere.
Intanto
Mangano è diventato
reggente della famiglia di Porta Nuova.
Cosa vuole da
Dell’Utri? Cerca garanzie sul fatto che il nuovo partito, in cambio dell’appoggio
elettorale della
mafia, risponderà ad alcune esigenze politiche di
"Cosa Nostra": alleggerimento
del
"41 bis" (carcere duro), della legge sui beni confiscati e del
"416 bis" (associazione di stampo
mafioso). Ne parla tra gli altri il
pentito Savatore Cucuzza, ritenuto dai giudici
«un collaborante di sicura attendibilità, dotato di notevoli capacità intellettive e dialettiche, già
positivamente apprezzato con riferimento ad altri argomenti».
Cucuzza ha parlato di un paio di incontri avvenuti prima di giugno del
1994, tra
Mangano e
Dell’Utri. Di questi incontri esiste una prova documentale: le agende dello stesso
Dell’Utri, che
riportano due appuntamenti avvenuti il
2 e il
30 novembre 1993.
Il
senatore ha cercato di giustificarsi dicendo che
Mangano (noto
mafioso, già imprigionato per
truffa e narcotraffico…) era solito andare a trovarlo nel suo ufficio (a
Milano, non proprio comodo
per chi vive a
Palermo…) per esporgli non meglio precisati problemi di carattere personale.
Dopo questi incontri alcuni pentiti affermano che dentro
"Cosa Nostra" è circolato l’ordine
di appoggiare
"Forza Italia" in quanto
Marcello Dell’Utri avrebbe dato ampie rassicurazioni
circa la possibilità di assecondare le richieste fatte dalla
mafia.
La raccomandazione dell’amico Cinà
Sicuramente quella con
Mangano non è l’unica frequentazione pericolosa di
Dell’Utri.
Il
19 aprile 1980, a
Londra, partecipa al matrimonio tra
Girolamo Maria Fauci e
Shanon Green.
Fauci è un pregiudicato che gestisce il traffico di stupefacenti per conto delle
famiglie Caruana-Cuntrera tra
Canada, Gran Bretagna e
Italia.
Dell’Utri è accompagnato da
Cinà. Al ricevimento sono presenti anche
Mimmo Teresi
e il futuro
pentito Di Carlo (quello che parlò dell’incontro a
Milano nel
1974 tra
Berlusconi,
Dell’Utri,
Bontate e
Teresi).
Della partecipazione al matrimonio londinese di
Fauci ha parlato il
Di Carlo, ma è lo stesso
Dell’Utri a confermare la sua presenza, dicendo però che lui si trovava a
Londra per visitare
una mostra sui Vichinghi e che fu condotto al ricevimento dall’
amico Cinà.
Ma già nel
1977 Dell’Utri dopo aver lasciato
Silvio Berlusconi, che, secondo l’imputato, non
credeva abbastanza nelle sue capacità manageriali, va a lavorare presso
Filippo Alberto
Rapisarda,
«personaggio complesso» - scrivono i giudici -
i cui rapporti con diversi soggetti
vicini alla criminalità organizzata, più volte emersi nel corso del dibattimento, non paiono
sufficientemente chiariti».
Secondo quanto emerso nel processo, il
senatore azzurro viene assunto grazie alla
raccomandazione di
Cinà, evidentemente persona capace di influenzare
Rapisarda, allora alla
guida della
"Inim" (terzo gruppo immobiliare italiano) nonostante sia - ufficialmente - solo il
modesto titolare di una lavanderia.
Dell’Utri diventa amministratore delegato della
"Bresciano costruzioni", un’azienda del suo
gruppo, che in poco tempo fallisce.
Rapisarda fugge all’estero, ospite in
Venezuela dei
narcotrafficanti
Cuntrera-Caruana e si muove grazie a un passaporto intestato al fratello gemello
di
Dell’Utri,
Alberto.
Lo sconto sul pizzo
C’è poi il capitolo del
pizzo pagato a
"Cosa Nostra" da
Berlusconi e dalle sue aziende. Secondo
diversi
pentiti,
Berlusconi pagava sia all’epoca di
Bontate sia dopo la sua uccisione (
1981)
quando, dopo la
seconda guerra di mafia, a comandare erano i
Corleonesi.
Lo stesso
Rapisarda ha dichiarato di aver saputo da
Dell’Utri che, grazie alla sua mediazione,
Berlusconi aveva pagato meno di quanto gli fosse richiesto. Ma sempre
Rapisarda sostiene che
Dell’Utri lo abbia detto solo per mera
"vanteria".
Difficile capire la mentalità di chi si vanta di conoscere grandi
boss mafiosi e di essere in grado
di trattare con loro. Comunque le affermazioni dei
pentiti unite alle dichiarazione del testimone
Rapisarda, confermano ancora una volta il ruolo svolto da
Dell’Utri: mediatore tra
"Cosa Nostra" e
Gruppo Berlusconi.
All’improvviso,
Berlusconi all’inizio degli
anni 80 richiama
Dell’Utri alla sua corte e lo nomina in
un ruolo strategico per il suo Gruppo: ai vertici di
"Publitalia 80", la società concessionaria della
pubblicità per la
"Fininvest". Iniziativa curiosa, viste le perplessità precedentemente dimostrate
sulle sue capacità dirigenziali e considerata la cattiva prova di sé data presso la
"Bresciano
costruzioni" di
Rapisarda.
Quello che il tribunale ritiene pienamente provato è che anche sotto il dominio di
Riina, la
"Fininvest", tramite
Dell’Utri e
Cinà, continua a pagare
"Cosa Nostra". E i rapporti continuano
negli
anni 90. Nel
1990, per esempio, la
"Standa" di
Catania subisce alcuni attentati a scopo
estorsivo. Dietro queste azioni c’è
Nitto Santapaola,
capomafia di
Catania, molto vicino a
Riina.
Secondo i
pentiti e un testimone,
Dell’Utri incontra
Santapaola per cercare una mediazione.
Quel che è certo è che gli attentati cessano all’improvviso e che la
"Standa" non sporge denuncia.
I buchi neri
I fatti presi in considerazione dai giudici
Leonardo Guarnotta (componente, negli
anni 80,
assieme a
Falcone, Borsellino, Di Lello, del pool guidato da
Caponnetto e già presidente del
collegio che ha assolto in primo grado
Calogero Mannino),
Gabriella Di Marco e
Giuseppe
Sgadari sono innumerevoli, e non è possibile trattarli tutti in questa sede, neppure
sommariamente.
Ciò che va ribadito è che il quadro probatorio è complesso, fondato su prove documentali,
filmati, fotografie, dichiarazioni di
pentiti e di testimoni, nonché su dichiarazioni e ammissioni
dello
stesso imputato. Il quale ha tenuto una condotta processuale tutt’altro che encomiabile,
visto il tentativo di inquinamento delle prove effettuato cercando di minare la credibilità di alcuni
collaboratori attraverso dichiarazioni pilotate di
falsi pentiti.
Rimangono tuttavia dei
buchi neri in questa ricostruzione processuale.
Dell’Utri è stato
una pedina utile alla
mafia, anzi fondamentale, esclusivamente per il suo ruolo di amico e
collaboratore dell’attuale
Presidente del Consiglio, che interessava alle cosche sotto diversi
profili. E nonostante non si trattasse di un processo contro
Berlusconi, la sua presenza
ha aleggiato nell’aula del tribunale in tutti questi anni e rimbalza continuamente nelle pagine
della sentenza.
Berlusconi avrebbe potuto chiarire molti lati poco chiari di questa vicenda e
diradare ogni
fumus, ogni sospetto sul suo conto.
Avrebbe potuto chiarire nei dettagli le modalità e il contesto dell’assunzione e
dell’allontanamento di
Mangano; avrebbe potuto chiarire la natura del rapporto con
Dell’Utri,
prima considerato un manager poco dotato e dopo il fallimento di
Rapisarda nominato a capo di
"Publitalia"; avrebbe potuto spiegare il senso di tante intercettazioni telefoniche in cui parla con
disinvoltura di attentati e richieste di estorsione mai denunciate; avrebbe potuto chiarire
l’origine di certi oscuri finanziamenti delle
holding "Fininvest" tra il
1975 e il
1983.
E tanto altro ancora. Purtroppo il
26 novembre 2002, quando i magistrati si recarono a
Palazzo Chigi per sottoporgli queste e altre domande, il
Presidente del Consiglio scelse di
avvalersi della facoltà di non rispondere. Un suo diritto, senza dubbio. Il cui esercizio ha lasciato
intatto, intorno alla verità, una densa coltre di nebbia.
Marco Nebiolo
testo tratto dal sito intenet
Narcomafie settembre 2005.