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   L’ANPI Voghera commenta

Abbiamo voluto dedicare questa pagina web alle prese di posizione, ad eventuali polemiche verso fatti ed episodi accaduti in città o nella nostra provincia.
L’obbiettivo è quello di sollecitare dibattiti, evidenziare avvenimenti e notizie, comunicare la nostra posizione sulla vita sociale e culturale nazionale ed iriense.

 

- 15 Ottobre 2013 -

Priebke: una vita da nazista





Sul "caso Priebke" vi presentiamo un a serie di articoli (a firma di Tommaso Di Francesco, Alessandro Portelli e Luigi Pintor) apparsi sul quotidiano "il manifesto" il 12 Ottobre 2013


"Una vita da nazista, fino all’ultimo giorno"

di Tommaso Di Francesco

Per Antonio Parisella, presidente del Museo di via Tasso di Roma, «una giustizia vera non sarà mai fatta. La sua condanna è l’ultimo successo della cultura nata dalla Resistenza» A Roma, l’edificio di Via Tasso al numero 145-155, che già ospitava gli uffici culturali dell’ambasciata tedesca, divenne, dopo l’occupazione tedesca della città l'11 settembre 1943, la sede del quartier generale del Sichereitdienst (servizio di sicurezza Sd) e della Sicherheit Polizei (Sipo, polizia di sicurezza), sotto il comando del colonnello Herbert Kappler. Era il luogo dove, anche senza motivo, le persone erano portate, venivano interrogate, detenute, torturate. Da qui si usciva solo per finire al carcere di Regina Coeli, al Tribunale di guerra per essere fucilati a Forte Bravetta o per scontare una pena in Germania, per finire nei lager o per essere uccisi alle Fosse Ardeatine, come avvenne il 24 marzo del 1944. Queste stanze, che ospitano ancora le stesse celle e i luoghi di tortura che videro la sofferenza di duemila anti-fascisti, dei quali circa 400 donne, furono anche il teatro delle «imprese» criminali di Erich Priebke. Qui abbiamo incontrato Antonio Parisella presidente del Museo storico della Liberazione che dal 1955 ha sede proprio a Via Tasso.

Che cosa provi alla notizia della morte di Priebke?
Aveva da poco compiuto cento anni. Che altro doveva fare? Ora, con la sua morte, si potrà e si dovrà vedere con maggiore severità e insieme serenità la sua vicenda, le sue responsabilità, al di là degli interventi strumentali, spesso usati da avvocati e parenti e da chiunque aveva interesse a sminuirle. È arrivato il momento che qualcuno su questa figura compia una ricostruzione adeguata, affrontando tutti gli atti processuali e soprattutto gli archivi tedeschi che ancora non conosciamo bene. Ricostruendo così tutta la sua attività all’interno del Comando di Via Tasso, non solo rispetto al massacro delle Fosse Ardeatine nel quale vennero assassinate 335 persone.

Perché questa prospettiva da Via Tasso è più illuminante sul ruolo di Priebke che, ricordiamo, ha ripetutamente dichiarato nel processo di avere «solo eseguito gli ordini»?
Perché la vita del carcere, del Comando di polizia e dei servizi di sicurezza nazisti lo vede protagonista. È questa verità che ci fa capire le sue reali responsabilità. Cioè che Kappler, insieme a Priebke, Hass e Schutz sono le figure che assumono in prima persona il compito dei fucilatori quando accade che i commilitoni dei soldati morti nell’attentato partigiano di Via Rasella il giorno prima, il 23 marzo 1944, si rifiutano di fare loro direttamente la rappresaglia come gli era stato richiesto dai nazisti. E questo perché il comandante del Battaglione Bozen dichiarò che il codice militare prevedeva che potessero dire di no ad una rappresaglia. È in quel momento che il Comando nazista si assume il compito, con gli ufficiali compreso Priebke pistola alla mano, riempiendo di alcol gli effettivi, circa cento Ss. Risultato: 335 assassinati e nascosti nelle cave delle Ardeatine. Questo crimine diretto avviene proprio perché Priebke era già aguzzino al più alto livello, nei soprusi, nelle violenze, nelle uccisioni e nelle torture che venivano commesse nel carcere di Via Tasso. Lui che era l’aiutante di Kappler dal 1939. Nell’ordine gerarchico - comandava anche la polizia fascista - il comandante in capo era Herbert Kappler, fuggito dal carcere italiano grazie a protezioni occulte nel 1977; subito dopo come braccio destro c'era Karl Hass (dopo la Seconda guerra mondiale venne reclutato dall'intelligence americana), e al numero tre Erich Priebke e Carl Schutz.

Poi però Erich Priebke fu estradato dall’Argentina e processato in Italia nell’aprile del 1997…
M’importa ricordare subito che l’avrebbe fatta franca anche allora, c’era già un aereo che lo aspettava per portarlo impunito in Spagna o in America latina, nonostante che persino la Germania avesse chiesto l’estradizione. Se non fosse stato per l’iniziativa dei familiari delle vittime che bloccarono il Tribunale nell’agosto del ’97 e per l’allora ministro della giustizia Flick che nella notte riuscì a ottenere un nuovo mandato di cattura e a permettere che uscisse da quel tribunale per finire nel carcere di Regina Coeli.

Ora, con la morte, si può dire che giustizia è stata fatta?
La giustizia dei codici forse sì. Ma quella che può sanare il dolore dei familiari delle vittime, non sarà mai fatta. Il fatto più importante è che la condanna di Erich Priebke è uno degli ultimi atti rilevanti e positivi della cultura antifascista, cioè coerenti con la cultura che ha generato la Costituzione. Perché in realtà, dagli anni Novanta in poi, sono dilagati in Europa due fenomeni: sul piano culturale il revisionismo storico e il negazionismo della Shoah, mentre sul piano concreto sono nati movimenti neonazisti e xenofobi che, non solo sono forti in Grecia e serpeggiano in Italia, ma in alcuni paesi, penso all’Ungheria, alla Lituania e recentemente alla Norvegia, ormai ispirano l’azione di governo degli stati. È in questo clima che sui muri vicino a Via Tasso mani criminali hanno recentemente scritto inneggiando a Himmler e graffitato «onore al camerata Priebke».

 

"L’antifascismo è una battaglia che va fatta"

di Alessandro Portelli

La cosa triste è che alla fine della sua lunga vita Erich Priebke se ne è andato senza avere capito niente.
Quando è arrivato in Italia, estradato dall’Argentina, le sue prime interviste facevano accapponare la pelle. Ripeteva che non aveva fatto altro che il suo dovere di soldato che obbedisce agli ordini, infilava a malapena qualche parola di circostanza sulle vittime e le loro famiglie, ma era chiaro che non sentiva niente.
I suoi manipolatori e gestori (anche qui, come in guerra, Priebke è stato fino alla fine strumento connivente di strategie altrui) si accorsero subito che ogni volta che parlava si faceva danno, e da quel momento in poi lo lasciarono parlare solo con interlocutori consenzienti (per esempio, Indro Montanelli). Quando provai io a intervistarlo per il libro che stavo facendo sulle Fosse Ardeatine, i suoi avvocati in un primo momento dissero di sì (avevo «buone» referenze), poi si informarono e rinviarono l’incontro di settimana in settimana per più di un anno finché ci rinunciai.
Per tutto il tempo del processo, lui e il suo camerata Hass ebbero l’aria spaesata di chi non capisce perché ce l’hanno tanto con loro. E così è rimasto fino alla fine. Ebbe persino il coraggio di fare causa per diffamazione e chiedere un risarcimento milionario a Rosetta Stame, figlia di una delle sue vittime, che aveva «offeso il suo onore» chiamandolo torturatore.
Le Fosse Ardeatine restano una ferita aperta finché esistono in Italia, e nel resto d’Europa, gruppi certo minoritari ma comunque preoccupanti che si richiamano al nazismo e alla sua ideologia, per i quali Erich Priebke era un’icona vivente. Il suo processo era apparso come l’ultima occasione per cercare, con molto ritardo, di fare un minimo di giustizia. Il suo capo, Herbert Kappler, era morto da libero cittadino, lasciato andare con la connivenza delle autorità italiane; il tribunale militare aveva lasciato andare gli altri massacratori con la scusa che avevano obbedito agli ordini; e l’«armadio della vergogna» col suo carico di violenza era ancora sepolto nei sotterranei di qualche ministero. Ma anche quel processo, e adesso anche la scomparsa di Erich Priebke, non cancellano il lutto, non chiudono il caso, non mettono fine alla domanda di giustizia e di verità, se non sul piano processuale, su quello storico. La battaglia per la memoria è ancora tutta da combattere.

 

"Ragione e sentimento"

di Luigi Pintor

Se reagisco emotivamente alla sentenza Priebke provo un senso di pianto. Penso alle vittime come a persone vive e incredule, come se le conoscessi tutte e non una soltanto. Se toccasse a me di informarle, portar loro la notizia nel fondo delle cave, che parole troverei?
Più che sofferenza sento però vergogna personale. Che cosa ho fatto in questi cinquant’anni? Sono uno di quelli che debbono a un certo punto domandarsi, secondo Thomas Mann, se gli resti il diritto di noverarsi tra le persone rispettabili.
Provo anche dell’odio e altri pessimi sentimenti. So che non si deve. Ma se alla fine di quel processo, qualcuno si fosse abbandonato a un gesto estremo, l'avrei compreso come un fratello. So che non si deve.
Se invece reagisco alla sentenza Priebke razionalmente, con un criterio politico, allora resto freddo e persuaso. La trovo logica, e contro la logica si indignano i farisei. La trovo un segno dei tempi, e perciò un segno di verità.
Da molti anni i fascismi, tutti i fascismi, sono stati rivalutati. Sottilmente nelle accademie europee, nelle nostre aule parlamentari, nel senso comune. Ora grossolanamente anche nei tribunali. Norimberga non fu che un'ipocrisia dei vincitori.
Non è una rivalutazione storica, è una rivalutazione politica. Non riguarda il passato, riguarda il presente. Non è una memoria cancellata, è una memoria ritrovata. I fascismi sono stati un’incarnazione del potere e una teoria del dominio a cui si riconosce un merito e si restituisce un onore. Perché su di essi si può fare assegnamento futuro.
Così ci parla nella sua miseria la sentenza Priebke, anche se preferiamo non sentire. E ci dice coerentemente che ogni strage, ogni crimine contro l’umanità, ogni guerra, trova legittimità e giustificazione in quanto è un esercizio del potere. Questo esercizio insindacabile non è più un’eccezione ma una consuetudine, è la nostra normale frequentazione televisiva. Se condannassimo quel passato, come potremmo assolvere questo presente?
Lasciamo dunque che il buon soldato muoia nel suo letto con la donna che gli ha scritto lettere d’amore. E apriamo subito anche noi, come ad Auschwitz, un supermercato esemplare al posto dell’ossario in disuso, anticipando giubilei e nuove costituzioni.

Questo editoriale di Luigi Pintor è stato pubblicato sulla rima pagina del manifesto il 3 agosto 1996. Il primo agosto Erich Priebke era stato prosciolto dal Tribunale militare di Roma al termine del processo per la strage delle Fosse Ardeatine. I giudici militari avevano riconosciuto all’imputato le attenuanti, ragione per cui il reato era stato dichiarato prescritto. Alla lettura della sentenza una rivolta popolare, in prima fila le famiglie delle vittime della strage, aveva assediato l’aula del Tribunale.

 

I 3 articoli di è stato stati pubblicati sul quotidiano "il manifesto" il 12 Ottobre 2013