L’ANPI Voghera commenta
Abbiamo voluto dedicare questa pagina web alle prese di posizione, ad eventuali polemiche verso fatti ed
episodi accaduti in città o nella nostra provincia.
L’obbiettivo è quello di sollecitare dibattiti, evidenziare avvenimenti e notizie, comunicare la nostra posizione sulla vita
sociale e culturale nazionale ed iriense.
- 24 Febbraio 2011 -
Gli 80 anni di Raniero La Valle
"Il mio Novecento è finito mentre un
fuorilegge si aggira per l’Europa parlando
a nostro nome"
di Raniero La Valle
A Antigone, Vasti, Agnese, Agata, Teresa, Tina Anselmi,
Ruth First, Marianella,
le madri di piazza di Maggio, le donne
del 13 febbraio e a tutte le donne che resistono ai potenti
Il mio
Novecento è cominciato nella notte del
fascismo;
ma essendo un bambino non ne sono stato, all’inizio,
troppo turbato. È vero che sono stato
balilla, e perfino
balilla moschettiere, ma non ho fatto a tempo a diventare
avanguardista, prima che il
fascismo cadesse.
Forse ho fatto anche qualche tema sul
duce. Il
Duce era
un
mito. Ed io ricordo il mio choc quando per la prima
volta mi sono imbattuto in un atto di demitizzazione. Fu
quando su un manifesto affisso per la strada,
abbastanza in basso perché un bambino potesse
arrivarci, vidi scritto in un angolo, piccolo piccolo, a matita:
Abbasso il
duce. Mi fece un’impressione straordinaria.
Dunque si poteva anche essere contro il
duce? Dunque
nel segreto si poteva pensare male di lui? Dopo di allora,
molti altri processi di demitizzazione sono entrati nella
mia vita; ma quella fu la prima volta, e ancora me ne
ricordo.
Il
fascismo, nel quale avevo vissuto lietamente l’infanzia,
cominciò a farmi soffrire quando ho smesso di essere un
bambino. Ciò è accaduto all’età di
otto anni, quando è morto mio padre, una firma importante del
giornalismo,
Renato La Valle, che però il regime da anni aveva messo a tacere. Ho smesso di
essere un bambino anche perché subito dopo, nel
39, c’è stata la
guerra, e la
guerra non fa
bene ai bambini. A
Roma venne anche la fame; sicché quando toccava a me di andare a
prendere il pane dal fornaio, che si chiamava Biagini, già per la strada mangiavo il panino che mi
spettava, che era poi la razione di
cento grammi di pane al giorno stabilita dal governo.
In ogni caso non si poteva affrontare la
guerra da bambini, con una madre vedova e due
sorelle,
Fausta e
Fidelia, anch’esse bambine. Vennero anche i bombardamenti a
Roma; nella
strada accanto alla nostra morì
Virginio Gaida, che era direttore del
“Giornale d’Italia”, e la
fontana di fortuna sotto casa, attaccata alla presa per innaffiare, fu colpita mentre le donne
erano in fila per prendere l’acqua. Un signore ebreo, che ci dava lezioni di francese a domicilio,
fu ben presto in pericolo, sicché noi lo nascondemmo in casa nostra, anzi gli cedetti il mio letto,
che aveva una coperta di damasco rosso fatta da una tenda. Seppi così che gli
ebrei erano
perseguitati. Una notte sparì, fuggito altrove; nel cestino della carta trovai che aveva buttato
con noncuranza una cravatta ancora buona, perché era un barone. Poi abbiamo saputo che si
era salvato.
Così cominciai a capire molte cose della
guerra. Per esempio che cosa era una
guerra mondiale.
La
guerra mondiale era che il
Brasile, chissà perché, era nostro nemico. Ma il
Brasile per noi
era la fonte di sostentamento, perché mia madre lavorava col
Brasile. Era infatti corrispondente
di giornali brasiliani; e ciò lo si deve al fatto che alla morte di mio padre genialmente si era fatta
giornalista; aveva passato una vita a battere a macchina gli articoli di suo marito, che scriveva
solo a mano, e grazie a quella macchina aveva acquisito un sapere che le venne buono al
momento del bisogno, permettendole di ereditare il posto di lui e di continuare il suo lavoro: ed
ecco che ora la guerra separava lei dal suo lavoro, e noi dal suo stipendio.
Così lei,
Mercedes, dovette inventarsi altri lavori; non poteva
più scrivere articoli, però poteva fare la dattilografa; e così ancora una volta la macchina da scrivere la salvò. Degli avvocati, che
patrocinavano presso il
Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, le diedero da copiare dei
processi; e lei ogni mattina andava al palazzo di giustizia a scrivere, e ci andavo anch’ io, perché
anch’io nel frattempo avevo imparato a scrivere a macchina, e perciò copiavo le carte dei
processi anch’io; per fortuna allora non c’erano impedimenti al lavoro minorile.
Fu in questo modo singolare che io, senza affatto capire di che si trattasse, ho incrociato il
dramma dell’
antifascismo, e forse ho scritto a macchina qualche difesa di
antifascisti giudicati
dal
Tribunale Speciale, e qualcuno magari condannato a morte. Ed è forse da questo inconscio
in cui è rimasto in me sepolto il
Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato che oggi nasce la
mia indignazione quando vedo accusare e diffamare i tribunali e i giudici della
Repubblica democratica.
Il
fascismo andò a finire nell’
occupazione tedesca. E io ricordo i tedeschi che facevano le retate;
capitò anche a me, quando a
Porta Pia ci fecero scendere da un autobus, che allora non si
chiamava
60, ma
NT, che voleva dire
Nomentano-Trastevere, e presero gli uomini; io avevo
tredici anni, e perciò non corsi nessun pericolo, Nondimeno la domenica, quando andavo col mio
compagno Giorgio Marino alle Messa e alla dottrina dal Cardinale Massimi, nella chiesa di
San
Claudio a piazza
San Silvestro, il cardinale ci prendeva in macchina con sé e ci portava fino a
casa sua per non farci correre rischi.
Anche il cardinale Massimi, che apparteneva a una famiglia di principi romani, era un demitizzatore. Girava sempre in tonaca nera, senza porpora, come un prete qualunque; e ricordo
il mio stupore una volta che in
San Pietro, nella cerimonia del concistoro, lo vidi sfilare, come usava allora, con uno strascico di
tredici metri.
Faceva gesti semplici e
omelie antifasciste. La domenica, prima di lasciarmi, spariva
nell’androne della villa che abitava ai
Parioli, e tornava, con la sua andatura caracollante,
portandomi un cartoccio di farina e un sacchetto di zucchero, perché ero orfano; e siccome era
uno che non cambiava abitudini – al
Concilio certamente sarebbe stato tra i
conservatori – continuò per molti anni ogni domenica a regalarmi sacchetti di zucchero e un chilo
di farina, anche quando la guerra era finita e noi non ne avevamo più bisogno.
La Costituzione
Fu
Vittorio Bachelet, che era un po’ più grande di me, che dalla
Congregazione del cardinale
Massimi mi portò alla
Fuci, la
Federazione degli universitari cattolici.
Bachelet voleva lasciare
la carica che aveva lì, di segretario del
Consiglio Superiore, per cominciare la sua strada
professionale che doveva portarlo poi fino al
palazzo dei Marescialli e al sacrificio della vita.
Lasciando la
Fuci, volle lasciare la sua carica a me che non ero nemmeno
Fucino; sicché entrai
alla Fuci dal vertice, al centro, invece che dalla base. Lì mi imbattei in un altro processo di
demitizzazione. Fu quando, parlando con
Ivo Murgia, che della
Fuci era stato un prestigioso
presidente, gli sentii fare una critica al
papa, che chiamò
“l’uomo vestito di bianco”. Ne fui
molto impressionato. Dunque si poteva parlare così di
Pio XII? Dunque anche lui era un uomo
come gli altri, tanto che a distinguerlo potesse essere il suo abito bianco?
La
Fuci rappresentò per me, come per molti altri giovani, la vera figura della
Chiesa. Un po’
libera e un po’ clericale, molto seria e molto allegra, studiava e cantava, era intellettuale
e sentimentale. C’era molto
Maritain, che a me non piaceva per quella storia di dividere i piani
tra lo spirituale e il temporale, tra l’operare come cristiani e l’operare come cittadini. Ma
soprattutto era una grande comunità di amici: se la
Chiesa era quella, era una meraviglia. Era
anche il luogo dove ci si innamorava e ci si sposava, come ho fatto anch’io; e i matrimoni
duravano
“fino a che morte non ci separi”, cosa che a me accadde dopo
quarant’anni.
La
Fuci fu anche l’iniziazione alla politica, attraverso l’impegno nella
democrazia universitaria.
Io non sapevo nulla di politica, in
Fuci non se ne parlava. A noi, gruppo dirigente di allora
(
presidente era
Romolo Pietrobelli), non sarebbe mai venuto in mente di promuovere una
campagna referendaria per cambiare legge elettorale e sistema politico, per spiantare i partiti
e fare un’Italia bipolare maggioritaria e manichea, come poi si è fatto. Vero è che anche allora la
politica si faceva, ma la faceva
don Costa, che era un grande assistente ecclesiastico
dell’associazione; ma dal punto di vista ecclesiale non era molto meglio che a farla fosse
solamente lui. Egli parlava con i
capi democristiani; una volta andò in via
don Orione da
don Sturzo a nome del
papa, a dirgli che non doveva più scrivere, perché i suoi articoli sul
“Giornale d’Italia” erano troppo
antidemocristiani, e se la prendeva troppo con le
partecipazioni statali e con l’
ENI di
Enrico Mattei. L’obbedienza che chiedeva a
Sturzo,
e proprio a lui, era il silenzio.
Io allora non sapevo che in quegli anni, tra la fine della guerra e il mio ingresso all’università,
c’era stato un passaggio d’epoca. Certo, conoscevo i fatti, ma non ancora la loro portata.
In effetti in quegli anni, con l’
Assemblea di San Francisco, la
Dichiarazione universale dei
diritti dell’uomo, le
Costituzioni, il
Novecento aveva cambiato il suo volto, aveva segnato
una svolta nella storia e nel pensiero dell’Occidente, e aveva cambiato il nostro destino.
Il
Novecento, e con esso l’
Italia, avevano avuto il loro momento magico, avevano operato una
straordinaria conversione culturale, politica e morale. Gli orrori della
guerra, gli esiti perversi in
cui erano venute a concludersi le dottrine politiche e antropologiche della modernità, avevano
fatto cadere tutte le certezze, avevano posto l’esigenza potente, incoercibile, di pensare tutto
di nuovo,
l’uomo, lo Stato, la guerra, la pace, il diritto, l’ordine delle nazioni, ben al di là
dell’
antifascismo.
Il
“mai più” pronunciato sotto lo scrosciare delle bombe, nei
campi di sterminio, nelle
carceri
della tortura, dinanzi ai
venti milioni di morti solo nell’
Unione Sovietica, dinanzi allo stupro
dei popoli fatto da colonie ed imperi, doveva trovare la sua traduzione in culture ed ordinamenti
nuovi. Fu così che nella storia del
Novecento irruppe la novità della grande
Costituente
mondiale da cui nacque la
Carta dell’
ONU del
45, irruppe la novità del costituzionalismo come
teoria dello Stato, e in Italia la novità della
Costituzione e della
Repubblica.
Il rovesciamento, almeno in via di principio, rispetto a tutta la storia passata, non poteva essere
più radicale. E ciò almeno sotto
tre profili.
- 1) Se prima il pensiero della disuguaglianza aveva fondato il dominio, ecco che ora veniva
proclamata l’eguaglianza. In tutta la storia, fino a Hegel, a Spencer, a Nietzsche, a Croce
e perfino nel dizionario francese Larousse e fino a Hitler, era stata teorizzata la
disuguaglianza per natura degli esseri umani, la differenza tra popoli della natura e popoli
dello spirito, tra spagnoli ed indios, tra razze bianche e nere, tra forti e deboli, tra maschi
e femmine, tra uomini e no. Ed ecco che nel 45 eguaglianza e unità di tutta la famiglia
umana vengono proclamate come principi generali e universali e come tali entrano
nel diritto.
- 2) Se prima la guerra era stata proclamata dai filosofi madre e principio di tutte le cose,
era stata la sposa indissolubile dello Stato sovrano, aveva giudicato i popoli con la forza
e non con la giustizia, e fino a Norimberga era stata giudicata legittima anche nelle forme
dell’aggressione e dell’invasione, ecco che ora la guerra veniva ripudiata come una
spregevole concubina, veniva esclusa dal diritto e proibita nella comunità internazionale
perfino nelle sue premesse, con il divieto non solo del ricorso alla forza, ma anche
della minaccia dell’uso della forza.
- 3) Se prima l’idea di sovranità, come di un potere che non riconosce sopra di sé nessun
altro potere, aveva fondato gli assolutismi e attribuito agli Stati il diritto di guerra, ecco
che ora essa veniva ridimensionata, resa relativa. La sovranità esterna degli Stati era
rovesciata nell’interdipendenza, sottoposta al diritto internazionale cogente e addirittura
fatta oggetto di rinuncia, come nella Costituzione italiana , al fine di costruire un
ordinamento di giustizia e di pace tra le Nazioni; e la sovranità interna veniva
strettamente condizionata al costituzionalismo, e ciò a valere sia per i cittadini che per
gli stranieri, sicché la cittadinanza, come dice Ferrajoli, è l’ultima discriminazione che
dovrebbe cadere.
Certo, questi principi erano ben lungi dall’attuarsi. Però stabilirono un traguardo. Alla
Costituente i partiti di massa e i professorini ce la misero tutta per fare della
Repubblica il
soggetto a cui fossero intestati questi ideali, e ci riuscirono; e i
dossettiani ce la misero tutta per
fare della
Democrazia Cristiana lo strumento per la loro attuazione, finché, non riuscendoci,
Dossetti si ritirò dalla scena.
La comunicazione politica era però ancora ristretta, la televisione non c’era, ed io non sapevo
nulla di
Dossetti. Una volta sentii
Franco Grassini, che sarà poi un ottimo capo della
GEPI,
che diceva di essere
“un dossettiano spinto”; solo dopo ho capito che cosa, allora, questo
volesse dire. La politica fu invece per noi la partecipazione agli organismi rappresentativi
dell’Università: fu l’Interfacoltà, l
’Unuri; i cattolici stavano nell’Intesa universitaria,
Pannella
era coi goliardi. C’erano pure i comunisti, freschi di scomunica; ma non mi sembrava che
mangiassero i bambini. C’era anche
Luciana Castellina, che era bellissima e diceva cose
ragionevoli e giuste, e naturalmente me ne innamorai, anche se solo nel pensiero.
Del resto io non sono mai riuscito a vedere nessuno come nemico. Una volta, quando più
infuriava la lotta contro i comunisti, e
Gedda voleva fare una
“base missionaria” in ogni
condominio per combatterli meglio, io scrissi su
“Ricerca”, che era il giornale della
Fuci, un
articolo dicendo che nel
Vangelo si leggeva che bisogna amare i nemici e perciò, benché nemici,
bisognava amare anche i comunisti. Successe un putiferio; i
Comitati Civici accusarono la
Fuci di rompere il fronte, ma in quella occasione
don Costa mi difese.
La
Fuci mise in movimento un processo di maturazione della fede, che però non si sarebbe mai
compiuto se non fosse giunto il
Concilio Vaticano II. Io la fede l’accettavo così come veniva
proposta, però c’era un disagio che non sapevo decifrare, che mi portava a preferire l’approccio
monastico dei camaldolesi; amavo
padre Benedetto Calati e una volta restai folgorato quando,
ascoltando un’omelia del
cardinale Lercaro durante un congresso
Fucino a
Bologna, mi sembrò
di sentire per la prima volta parlare di
Dio.
Lercaro non era il mio vescovo, ma io da allora lo
presi come tale, finché quando poi andai a
Bologna a lavorare, mio vescovo diventò davvero.
Il Concilio
La figura di
Dio che la
Chiesa allora proponeva, e la dottrina di fede nella quale lo includeva,
erano molto diverse da quelle che sarebbero state dopo il
Concilio e quali sono ora. E bisogna
ricordarlo, altrimenti non si capisce uno dei cambiamenti più profondi che sono avvenuti
nel
Novecento.
Nella presentazione che allora se ne faceva,
Dio era un nume offeso che doveva essere placato
dai nostri sacrifici, così come aveva voluto essere placato dal sacrificio del
Figlio che
a questo scopo avrebbe mandato a morire sulla
croce; la nostra cattiveria era data per
scontata e attendeva solo di essere perdonata; il giogo del peccato ci teneva sotto il peso della
vecchia servitù, perfino la morte era per colpa nostra, altrimenti saremmo stati immortali, il
mondo era una valle di lagrime, noi dovevamo disprezzare le cose terrene e le prosperità del
mondo, e cercare solo quelle celesti. Le nostre afflizioni erano del tutto meritate, come dicevano
le preghiere della Messa:
“Dio che vedi come per le nostre perversità siamo afflitti”;
“Noi che giustamente siamo afflitti a causa dei nostri peccati”;
“Noi che siamo afflitti
a causa del nostro operare”;
“Noi incessantemente siamo afflitti a causa dei nostri
eccessi”, e così via, di colpa in colpa. Così si pregava nell’Ordinario latino della Messa prima
della riforma liturgica del
Concilio; e siccome eravamo stati educati a prendere in mano il
messale e sapevamo il latino, capivamo quelle parole e ora possiamo capire il salto che c’è
stato, e possiamo anche capire il furore dei tradizionalisti che vogliono tornare a quella messa,
e non perché è in latino.
All’origine di quella comprensione della fede c’era un’antropologia pessimistica, che era
diventata cultura comune e che ancora oggi possiamo rintracciare alla base di molte istituzioni
dell’Occidente, a cominciare dallo Stato. Esso fu concepito infatti come antidoto alla congenita
cattiveria umana che di per sé porterebbe alla violenza generalizzata, alla lotta di tutti contro
tutti, sicché anche la politica è stata teorizzata come uno scontro tra
Amico e
Nemico. Il nostro
acerrimo sistema bipolare è ancora il figlio di questa dottrina.
Secondo questa antropologia, l’uomo si era infortunato appena creato; a causa del peccato era
rimasto sfigurato, la sua natura decaduta, ferita; il paradiso terrestre c’era stato davvero, ma
ne eravamo stati cacciati. La libertà dei moderni era considerata un delirio. L’eguaglianza tra
uomo e donna un’eresia e anzi, secondo
Pio XII, una tentazione diabolica, la lusinga di
“una voce serpentina”. Il desiderio sessuale, i parti con dolore, il lavoro col sudore della fronte
erano pena del peccato; l’amore sponsale non inteso alla procreazione era, come si leggerà in
un documento preparatorio del
Concilio,
“un fetido onanismo coniugale”.
Rievocando quei tempi, nel
1979 a
quindici anni dalla chiusura del
Concilio, il
teologo Karl Rahner
dirà che la
Chiesa era tributaria di un cattivo agostinismo per il quale la storia del mondo era
ed è
“la storia di una massa dannata nella quale solo a pochi è dato salvarsi per una grazia
di elezione raramente concessa”; quei pochi stavano nella
Chiesa cattolica, fuori della quale
non c’era salvezza; quanto agli altri cristiani erano considerati come
“una massa di eretici da
indurre con le buone o con le cattive alla conversione all’unica vera Chiesa”.
È su questo scenario che irrompe il
Concilio, che
papa Giovanni inaugura postulando
l’aggiornamento della
Chiesa, il licenziamento dei profeti di sventura, il balzo innanzi nella
penetrazione dottrinale e nella formazione delle coscienze secondo il linguaggio e le forme
dell’indagine proprie del pensiero moderno. E benché oggi molti si ostinino a dire che il
Concilio
non ha cambiato niente, o che deve essere interpretato secondo un’ermeneutica dell’invarianza,
la
Chiesa e il suo annuncio di fede ne sono usciti trasformati; come dice
Rahner, lo stesso
annuncio di
Cristo è diventato un annuncio nuovo;
“sia nell’annunciatore che nell’annuncio
è avvenuto qualcosa di nuovo, di irreversibile, di permanente.” Queste cose non le
abbiamo scoperte subito, ma nel tempo, e per molti cristiani sono ancora da scoprire.
Ma certamente il
Dio testimoniato dal
Concilio non è un
Dio vendicatore che debba essere
risarcito e placato con l’
olocausto del
Figlio; l’età dei sacrifici è conclusa, e con essa qualunque
legittimazione religiosa delle pratiche vittimarie, delle vendette del sangue, delle rappresaglie,
della violenza e della guerra. La parola
“placatio”, da
“placare”, non c’è mai nei testi del
Concilio né nella liturgia dopo il
Concilio. Il
Signore è stato
crocefisso non a
causa di Dio
e per far piacere a lui, ma a
causa degli uomini, a cui egli ha pagato fino alla fine il prezzo
del suo amore per loro.
Il
Dio del
Concilio non è il
Dio bifronte,
“tremendum et fascinans”, di cui parlava
Rudolf Otto
all’inizio del
Novecento, ma è un
Dio solo
fascinans, solamente buono. È un
Dio che non ha
cacciato nessuno dal giardino dell’
Eden dopo il peccato; nella narrazione della storia della
salvezza fatta dal
Concilio questa cacciata non c’è; la buona notizia è che questa notizia
non c’è, e anzi, dice il
Concilio, gli uomini, caduti in
Adamo,
Dio non li abbandonò,
non dereliquit eos, ma a causa di
Cristo sempre prestò loro gli aiuti necessari per salvarsi e
senza posa,
sine intermissione, si prese cura del genere umano.
Di conseguenza l’essere umano non è un fuscello sbattuto nel tempo, ma ce la può fare a
prendere in mano la storia, ad aggiustarla (ius, il diritto, viene da iustari, che vuol dire
aggiustare). Il
Figlio di Dio si è unito in qualche modo ad ogni uomo, dice il
Concilio, perciò la
salvezza è per tutti, e tutti possono cooperare a realizzarla, perché, dice con la
Bibbia il
Vaticano II,
“Dio ha messo l’uomo in mano al suo consiglio”, e nella misura in cui vengano
“suscitati uomini più saggi” è possibile far fronte a una situazione in cui, come dice la
Costituzione pastorale,
“è in pericolo il futuro del mondo”. E quanto alla libertà, essa è la
“dignitas humana”, la dignità stessa dell’uomo, e in nessun modo la si può coartare,
nemmeno col pretesto di non dare libertà all’errore. La riconciliazione della
Chiesa col mondo,
celebrata dal
Concilio, è stata in realtà una riconciliazione con l’uomo, con gli uomini e le donne
quali noi siamo; e da questo non si può tornare indietro.
Il giornale
Quando arrivò il
Concilio, io ero da poco tempo direttore dell’
”Avvenire d’Italia”, un giornale
cattolico un po’ abbandonato dopo la lunga direzione di
Raimondo Manzini, passato
all’
”Osservatore Romano”. Prima, per alcuni mesi, ero stato direttore del
“Popolo”, dopo il
mitico
Bernabei, sotto la guida di
Aldo Moro. Ma non volevo fare la carriera nei giornali di
partito, e non ero iscritto alla
DC, forse ero indipendente già allora, e perciò accettai l’offerta,
liberatoria, che mi venne dal
giornale di Bologna. Credo che ne avessero parlato con
Giovanni XXIII perché Angelo Salizzoni, l’esponente moroteo che faceva parte del Consiglio
d’Amministrazione del giornale, mi comunicò la nomina dicendomi:
“per lei si apre anche il
portone di bronzo”.
Bernabei, che intanto si stava inventando la televisione, mi diede il suo
viatico con un consiglio:
“Ricordati – mi disse –
che una fotografia in prima pagina gli piace
perfino a La Pira”. Io avevo
trent’anni.
All’
”Avvenire d’Italia” ho fatto l’esperienza di che cosa volesse dire davvero la libertà di
stampa. Con giornalisti grandi come
Piero Pratesi, Albino Longhi, Giancarlo Zizola, Vittorio
Citterich, Umberto Andalini, Italo Moscati, Cavallaro, Pecci, Nanetti e molti altri, e con
collaboratori illustri, di cui
Bologna non era avara, da
Andreatta ad
Alberigo a
Ulianich alla
Codrignani ai
due Prodi, facemmo proprio il giornale che volevamo fare. I vescovi ci lasciavano
liberi, e il
cardinale Lercaro garantiva per tutti. L’unico fastidio che ogni tanto avevamo era
quando un vescovo voleva che non mettessimo la pubblicità dei film che il
Centro Cattolico
cinematografico di allora giudicava esclusi ai minori.
Nel
1964 Paolo VI, che era
antifascista, chiuse il
“Quotidiano” di
Gedda, che era il giornale
cattolico di
Roma, e assegnò all’
”Avvenire d’Italia” la sua area di diffusione a
Roma e nel
Sud,
sicché il giornale divenne il quotidiano nazionale dei cattolici; nello stesso tempo,
Paolo VI
pagò l’abbonamento al giornale per tutti i Padri conciliari, durante le sessioni del
Concilio.
Per il giornale fu un’esperienza esaltante: i vescovi cambiavano la
Chiesa, e noi raccontavamo
ai fedeli il
Concilio che cambiava la
Chiesa; nello stesso tempo raccontavamo ai vescovi il loro
stesso
Concilio e il modo in cui esso era percepito nella base ecclesiale, sicché si creò un
circuito virtuoso tra padri conciliari, giornale e opinione pubblica nella
Chiesa.
Quando il
Concilio finì, e
Roma fu di nuovo sola, il vento cambiò. Anche la proprietà del giornale
era cambiata, e non era più in maggioranza dei vescovi locali e dei laici, ma della
Santa Sede.
E perciò si pose un problema nuovo: che ne è della libertà di stampa quando l’editore è il
papa?
Con
Paolo VI le cose erano andate sempre bene, tranne in due occasioni. La prima fu nel
1964
quando nelle elezioni per il
presidente della Repubblica la
DC proponeva
Leone, e spuntò
la candidatura
Fanfani, cosa che
oltreTevere fu considerata una disobbedienza. I giornali cattolici
avrebbero dovuto sostenere questa tesi. Anzi avremmo dovuto dire che
Fanfani era un
pubblico
peccatore, perché mentre la
Chiesa chiedeva l’unità degli elettori cattolici, lui rompeva l’unità
degli eletti. Noi non sostenemmo questa idea, e continuammo a dire che,
Costituzione alla
mano,
Fanfani aveva tutto il diritto di proporre la sua candidatura. Una sera, anzi di notte, fui
chiamato a
Roma e mi fu detto autorevolmente che il giornale doveva cambiare linea, non
perché a chiederlo era il
papa che era il
papa, ma perché a chiederlo era il
papa che era
l
’
editore. Ne fui sconcertato, e da quel momento ci limitammo a pubblicare l’
ANSA, senza
commenti; e alla fine fu eletto
Saragat.
La seconda volta, più grave, fu a causa della
guerra del Vietnam. Noi criticavamo i
bombardamenti americani sul
Vietnam del Nord, e dicevamo che in tutti i modi si dovesse
invece negoziare. La
Santa Sede non voleva condannare i bombardamenti, con l’argomento che
anche i
Vietcong combattevano, e perciò la
Chiesa doveva essere equidistante, non poteva
stare né con gli uni né con gli altri. Per parte nostra il né, né non ci piaceva e preferivamo il
sì sì,
no no: i bombardamenti non si dovevano fare. Anche allora ci fu chiesto di cambiare linea;
io dissi che non potevamo, perché era una questione di coscienza; mi fu risposto che anche il
papa aveva una coscienza; certo, solo che il direttore del giornale non era il
papa: quale era
allora la coscienza in gioco?
La questione della libertà del giornalista si poneva così in modo inedito. Che cosa succede a un
giornalista cattolico quando l’
editore è il
papa? Qui entrano in conflitto non due obbedienze,
ma due libertà: una è la libertà del cristiano, che vale sempre, anche nei confronti del
papa;
l’altra è la libertà del giornalista dipendente, che arriva fin là dove l’editore lo permette. Per me,
a prevalere, fu la libertà del cristiano, e l’
editore vestito di bianco non ne fu affatto contento.
Più tardi quell’editore chiuse l’
Avvenire d’Italia, e diede vita a un nuovo giornale, l’
Avvenire.
Il
cardinale Lercaro ne fu molto turbato, ma ben presto ebbe anche lui i suoi dispiaceri.
La lotta per il riassorbimento del
Concilio era cominciata. Sarebbe durata a lungo.
Fu
Pino Alberigo con la sua storia del
Vaticano II, a predisporre i mezzi di difesa.
Il tempo della crisi
Il
Vietnam, la
Palestina, l’
America Latina, le
lotte per la pace, i
Tribunali Russell rilanciati da
Lelio Basso con
Linda Bimbi e le
sorelle brasiliane, riempirono gli anni successivi.
Il
’68 fu la
terza rivoluzione della seconda metà del
900. Dopo la
rivoluzione del diritto,
dopo la
conversione del linguaggio della fede, venne col
68 la
rivoluzione della vita
quotidiana, l’esplodere dei movimenti, il nuovo pensiero femminista, il sogno della libertà, la
lotta contro le istituzioni totali, la chiusura dei manicomi, il nuovo diritto di famiglia.
Il
68 avrebbe dovuto essere letto come un segno dei tempi; ma così non fu letto né dalla
Chiesa né dai partiti, e perciò non poté sprigionare tutte le sue energie.
Nel
1974 si ruppe l’unità politica dei cattolici col
referendum sul divorzio; i
“cattolici del no”
con
Scoppola, Carniti, le
ACLI, le
comunità di base rifiutarono il
sì all’abrogazione preteso da
Fanfani e da
Gabrio Lombardi. Dopo una notte di preghiera anche il piccolo fratello di
Gesù
Carlo Carretto disse che avrebbe votato
no per compassione verso gli emigrati italiani in
Germania rimasti senza famiglia e senza amore.
A causa dell’esito del
referendum il sistema di potere si incrinò; la democrazia bloccata dalla
clausola di esclusione dei comunisti rischiava di non poter essere più nemmeno democrazia.
Senza i comunisti, non aveva i numeri. Era venuto dunque il tempo di mettere il dialogo alla
prova, come aveva scritto
Mario Gozzini: coi comunisti si poteva parlare, e perfino giungere a
fare una maggioranza parlamentare con loro. Alla
Badia Fiesolana, nel
1976, ospiti di
padre
Balducci, ci ritrovammo in un centinaio per decidere il da farsi. C’era un invito del
PCI a entrare
nelle sue liste come indipendenti. Tutti erano d’accordo; alcuni però preferirono continuare il
lavoro da intellettuali, altri decisero di mettere le idee nella mischia, di esporsi in prima persona.
Non erano solo cattolici: fu decisiva la scelta del
pastore Vinay. Nacque così la
componente
cristiana della
Sinistra Indipendente che raggiunse in
Parlamento il
sen. Ossicini, l’ultimo
erede della
Sinistra cristiana, e che divenne un punto di riferimento nel dibattito culturale
e politico del Paese.
In
Parlamento i
l battesimo del fuoco arrivò per me, appena eletto, con la
legge sull’aborto.
Bisognava uscire dal sistema carcerario e clandestino previsto dal
codice Rocco; ma non
potevamo nemmeno ammettere la liberalizzazione ideologica dei radicali. Perciò cercammo una
soluzione conforme alla
Costituzione ma non dimentica del
Vangelo, il che voleva dire che
contrastava con quella di tutti i gruppi parlamentari, dai democristiani ai comunisti. Il confronto
fu molto duro, ma infine riuscimmo a mettere nella
194 quelle cose che nel
gennaio scorso
la
Chiesa ortodossa ha chiesto al governo
Medvedev di mettere ora nella legislazione russa:
l’obbligo di una consultazione preventiva con la donna, la ricerca di alternative all’aborto,
l’introduzione di un consenso informato e di un tempo di riflessione, nonché la creazione di
“centri di crisi”, che noi chiamavamo consultori, nelle cliniche ostetriche. Per queste proposte il
Patriarcato di Mosca è stato ora molto apprezzato a
Roma e dall’agenzia di stampa della
Santa Sede, mentre allora poco ci mancò che partissero le scomuniche, per non parlare della
lapidazione quotidiana da parte dell’
”Avvenire”.
In quella
legislatura Moro, che aveva osservato come nelle elezioni del
1976 c’erano stati
due vincitori, la
Democrazia Cristiana e il
Partito comunista, cominciò a tessere la sua tela
per giungere a una democrazia compiuta, superando l’esclusione che metteva fuori gioco
un terzo dell’elettorato. L’
America non voleva, e c’era in
Italia chi minacciava di scendere con
le armi nella strada, se i comunisti fossero stati ammessi al governo.
Ma le armi già le avevano le
Brigate Rosse; e lo sbarramento, interno e internazionale,
ad una intesa coi comunisti fu tale che
Moro fu
ucciso, complice la linea della fermezza che lo
votò al sacrificio. Io gridai contro la
ragion di Stato che ripeteva la
sentenza di Caifa per la quale
“è bene che un uomo solo muoia per il popolo”, ma il rombo della fermezza coprì ogni
voce alternativa.
Fu lì che morirono anche la
Democrazia Cristiana e il
Partito comunista, pur se la loro agonia
si protrasse nel tempo. L’ultimo guizzo profetico venuto dalla
DC furono il
26 luglio 1990 le
dimissioni dal
governo Andreotti di cinque ministri della
sinistra democristiana (
Martinazzoli,
Fracanzani, Misasi, Mattarella e
Mannino) per protesta contro la fiducia pretesa da
Craxi
sulla
legge Mammì; era la legge che consegnava tutte e tre le reti televisive e un enorme gettito
pubblicitario a
Berlusconi, che
Martinazzoli accusava di essere un
“capitalista da Far West”;
ma il fedele
Confalonieri replicava che andava bene proprio così, che
John Ford e il
Far West
erano la metafora del progresso. Quanto a noi, l’ultima cosa che facemmo fu la nuova legge
sull’
obiezione di coscienza, talmente bella che subito dopo per rivalsa abolirono il
servizio
militare obbligatorio.
Morendo la
DC e il
PCI, morivano anche le prospettive, forse troppo ambiziose, di imprimere un
corso diverso alla storia del mondo. La speranza era stata che, a partire dal caso italiano,
lo scontro tra le due culture, occidentale e comunista, potesse non risolversi nell’annichilimento
dell’una o dell’altra, ma nella ricomposizione dell’unità umana, nel trascendimento degli opposti,
nell’incontro fecondo tra le due culture e anzi tra tutte le culture. Invece si partì con la corsa al
riarmo nucleare, i missili,
Comiso, e quando, nonostante il tentativo di
Gorbaciov, lo
Stato
sovietico crollò, il
ministro degli esteri De Michelis venne in
Parlamento a dire che la
guerra fredda era finita e che noi l’avevamo vinta. Non sapeva che a finire non era solo l’utopia
comunista, ma anche il sogno occidentale di una democrazia realizzata, dove la politica
moderasse l’economia, il costituzionalismo garantisse i diritti e tenesse entro limiti invalicabili
il potere, la giustizia fosse realizzata, e le Repubbliche togliessero gli ostacoli al pieno sviluppo
della persona umana.
Il
Novecento finì così con una sconfitta. Non vinse né il socialismo né il costituzionalismo
liberale; si ripeté il fato che sempre ritorna, del
né né: né con lo
Stato, né con le
Brigate Rosse,
né col
comunismo né con la
democrazia, né con
Berlusconi né con i suoi
giudici.
Invece venne ripristinata la
guerra, il
ripudio venne revocato; si cominciò con la
guerra del
Golfo. Poco prima che cominciassero i bombardamenti, con un gruppo di parlamentari andai a
Bagdad, contemplai la città che stava per essere distrutta, e mi feci tradurre in arabo una
lettera da far giungere nelle mani di
Saddam Hussein, in cui lo scongiuravo, per il suo popolo,
per i palestinesi, per la pace,
in nome di Allah, di evitare la guerra con gli
Stati Uniti:
noi sapevamo quale fosse la potenza militare americana, e che cosa poteva voler dire cadere
sotto il suo fuoco.
Poi ci fu la
guerra con la
Iugoslavia, la
NATO si propose come nuovo sovrano militare mondiale;
+
a
Belgrado, dove ero andato con un una delegazione di
“un ponte per”, che portava aiuti,
rischiammo di cadere sotto il fuoco amico la notte in cui gli americani, che già avevano distrutto
la
Zastava e i ponti sul
Danubio, bombardarono per soprappiù l’ambasciata cinese e l’albergo
Iugoslavia che avevamo appena lasciato.
I guai vennero poi a cascata. Rilegittimata sul piano mondiale la violenza, in
Israele si fece
strada l’idea che, pur senza la pace, i
palestinesi avrebbero potuto cessare di essere un
problema; l’
Europa, che era stata la grande costruzione ideale e politica del secolo, non ebbe
voce, si infilò nelle maglie economicistiche di
Maastricht. In
Italia cominciò la demolizione
della
Costituzione; la democrazia rappresentativa, che finalmente avrebbe potuto funzionare
essendo venuta meno la “
conventio ad excludendum” dei comunisti, fu abbandonata per
essere sostituita alla fine con un
Parlamento del principe in un sistema bipolare selvaggio,
e cominciò la guerra contro i giudici perché non avesse mai più a ripetersi
Mani Pulite e i politici
infedeli potessero procacciarsi l’impunità.
Quando finì il
Novecento, finì anche il
Millennio. A
Roma, come
assessore, avevo organizzato
un convegno internazionale nel quale avevamo posto la domanda: che cosa di buono e
salutare del
Novecento dobbiamo portarci dietro nel nuovo millennio, e che cosa dobbiamo
abbandonare, perché non ritorni mai più? Questa domanda vale anche oggi, quando la
situazione è assai grave, il
Novecento è rimasto incompiuto, la democrazia è interrotta, l’
Italia
ha smesso di essere felice e un fuorilegge si aggira per l’
Europa parlando in nostro nome.
La mia risposta, che ho voluto darvi qui stasera, è che del
Novecento restano, insieme a molti
altri doni, quelle
tre grandi cose che furono la
Costituzione, il
Concilio, e il
68. Ma nessuna di
queste cose potrà sopravvivere, se non sarà assunta con amore, così come per amore sono
state compiute. Non c’è dubbio che alla
Costituente uomini come
Moro, Dossetti, Basso,
La Pira, Lazzati, Calamandrei, e donne come
Laura Bianchini, Angela Gotelli, Teresa Mattei,
operarono per amore. Non c’è dubbio che
Giovanni XXIII ha osato il
Concilio per amore.
E il
’68 è stato l’utopia dell’amore come alternativa al potere. Oggi si può anche difendere la
Costituzione, come noi facciamo, ma senza un amore che abbia l’assillo del bene comune di tutti
i cittadini, essa è destinata a sfiorire e a cadere a pezzi, ben oltre l’
art. 41; oggi un
papa
potrà pure rendere formale omaggio al
Concilio, ma se non lo assume con amore, anzi con
passione, non potrà dare nuova vita alla
Chiesa; oggi il
68 è dimenticato e da molti perfino
esecrato; ma se le nuove generazioni si incistano nei loro amori privati, e non riscoprono la
dimensione comunitaria, politica e pubblica dell’amore, inaridiranno nei loro egoismi. Come
diceva
Aldo Capitini parlando della nonviolenza, come di una scelta fatta per amore:
“ma è
l’amore che non si ferma a due, tre esseri, dieci, mille (i propri genitori, i figli, il cane di
casa, i concittadini, ecc.); è amore aperto, cioè pronto ad amare altri e nuovi esseri,
o ad amare meglio e più profondamente gli esseri già conosciuti. Perciò non è mai
perfetto e non finisce mai”.
Oggi, a
dieci anni dall’inizio del nuovo
Millennio, siamo preoccupati per i giovani e per i figli dei
loro figli che vivranno in questo secolo. Quello che noi possiamo fare è di trasmettere loro gli
attrezzi e le speranze che noi abbiano avuto nel
Novecento, sapendo però che saranno loro
a decidere cosa farne, e anche come dotarsi di attrezzi nuovi. Ogni generazione ha le sue vie.
Non si tratta perciò di lasciare ai nostri figli degli altarini alla
Costituzione al
Concilio e alla
contestazione, ma di dire il senso che queste cose hanno avuto per noi. E forse, riecheggiando
una vecchia parola, potremmo dirlo così: queste sono le
tre cose che rimangono: il
diritto,
la
fede, la
libertà; ma di tutte più grande è l’
amore.
Raniero La Valle è presidente dei Comitati Dossetti per la Costituzione. Ha diretto, a soli 30 anni,
L’Avvenire d’Italia, il più importante giornale cattolico nel quale ha seguito e raccontato le novità
e le aperture del Concilio Vaticano II. Se ne va dopo il Concilio (1967), quando inizia la
normalizzazione che emargina le tendenze progressiste del cardinale Lercaro. La Valle gira il mondo
per la Rai, reportages e documentari, sempre impegnato sui temi della pace: Vietnam, Cambogia,
America Latina. Con Linda Bimbi scrive un libro straordinario, vita e assassinio di Marianela Garcia
Villas (“Marianela e i suoi fratelli”), avvocato salvadoregno che provava a tutelare i diritti umani
violati dalle squadre della morte. Prima al mondo, aveva denunciato le bombe al fosforo, regalo del
governo Reagan alla dittatura militare: bruciavano i contadini che pretendevano una normale giustizia
sociale. Nel 1976 La Valle entra in Parlamento come indipendente di sinistra; si occupa della riforma
della legge sull’obiezione di coscienza. Altri libri “Dalla parte di Abele”, “Pacem in Terris, l’enciclica
della liberazione”, “Prima che l’amore finisca”, “Agonia e vocazione dell’Occidente”. Nel 2008 ha pubblicato
“Se questo è un Dio”. Promotore del “Manifesto per la sinistra cristiana” nel quale propone il rilancio
della partecipazione politica e dei valori del patto costituzionale del ’48 e la critica della democrazia
maggioritaria.
L’articolo di
Raniero La Valle -
Il mio Novecento è finito mentre un fuorilegge si aggira per
l’Europa parlando a nostro nome - è stato pubblicato sul sito web
"http://domani.arcoiris.tv" il
19 Febbraio 2011