L’ANPI Voghera commenta
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- 09 Novembre 2014 -
San Miniato 1944: Attila e le belle contrade
Pubblichiamo, con piacere, questo articolo di
Luca Baiada,
(giudice Corte Militare d’Appello di Roma), apparso sul sito
di
letteratura, immaginari e cultura d’opposizione Carmilla in data
08 Novembre 2014.
San Miniato 1944: Attila e le belle contrade
di Luca Baiada (da
Il Ponte, LXX, n. 10, ottobre 2014)
[Si ringrazia la rivista
Il Ponte per la gentile concessione.]
Il 22 luglio 1944, sangue nel duomo di San Miniato, suggestiva cittadina del Valdarno pisano. Si ricordano 55 morti, compresi i bambini, ma la cifra vera potrebbe
essere più alta, e ci potrebbero essere sorprese. In guerra in altri casi si muore in chiesa, ma qui è una carneficina. E in guerra ci sono preti che cadono insieme ai fedeli,
ma dei 55 a San Miniato nessuno è un chierico.
Il fronte è vicinissimo. Al mattino i tedeschi hanno concentrato in piazza molti civili. Con la collaborazione del vescovo Ugo Giubbi, li hanno fatti entrare in chiesa. Il vescovo esorta a
fare la comunione, dà una benedizione (qualcuno ricorda una vera e propria assoluzione e la dispensa dal digiuno eucaristico). Poi distribuisce immaginette, e se ne va poco dopo le nove.
Alle dieci c’è la strage.
In settant’anni, due tesi. Un’azione preordinata tedesca, artiglieria da fuori, o esplosivo nascosto dentro la chiesa. Un tiro sbagliato dell’artiglieria statunitense. Nel XX Secolo prevale
la prima spiegazione, poi ha successo la seconda. Adesso la contesa sembra assestata, dopo due indagini americane nel 1944, un’inchiesta del Comune dopo la guerra e un’altra sempre del Comune nel 2004, e libri
che vorrebbero essere definitivi, con titoli come ’Tutta la verità’ o ’La prova’. Ma ci sono nuove riflessioni, e basta parlarne, nel Valdarno, per sentire fremiti
e inquietudini. Qualcosa non torna, qualcosa dice che no. Quest’anno, per il settantesimo, un dibattito è stato annunciato e all’ultimo momento revocato, e corrono voci. Un fatto apparentemente minore,
nel panorama della tremenda estate 1944, è capace di polarizzare tensioni irrisolte. Ruotano attorno a un placido centro toscano, ma non è, come si dice, ’storia locale’.
Nella tesi della colpa tedesca abita un complice che sa d’incenso. Il vescovo ha volutamente contribuito alla strage, o almeno sapeva e non l’ha impedita. In quella della colpa americana, ce n’è uno che sa di sudore.
La Resistenza ha saputo presto la verità, e l’ha nascosta. Non c’è simmetria fra le due accuse: un vescovo che sa prima, non è lo stesso che un partigiano che sa dopo. Ma la logica è pericolosa, in questa storia.
Cosa c’è di definitivo nella memoria? Chi l’avrebbe detto, che un giorno la facciata del municipio sanminiatese sarebbe stata contesa. Mura viventi, quelle dove si scrive e si riscrive.
Nel 1954, per il decennale, Luigi Russo detta una lapide, esplicita sulla responsabilità tedesca: è stato un «gelido eccidio». Accusa la ferocia «attilesca» e leva toni gagliardi: «Lo straniero di ogni parte sia sempre tenuto lontano
delle belle contrade rifiutando ogni lusinga o d’aiuto o d’impero». E son subito guai: approvando la delibera comunale, il prefetto di Pisa toglie la parola «attilesca» e tutta la frase
sulle belle contrade. Ma la lapide è bell’e pronta, che si fa? Si staccano le parole scandalose, lasciando nella pietra i fori di fissaggio delle lettere. Un occhio attento li nota ancora. Insomma, la censura comincia presto, è di Stato e mutila un discorso scomodo. Qualcuno vuole incolpare gli Alleati, ma molti vogliono gli italiani immemori.
Certo, non c’è solo lo Stato. Nel 1964, per il ventennale, un manifesto della diocesi esordisce: «Il 22 luglio 1944 un tragico errore di guerra bagnò di sangue le vecchie mura della nostra cattedrale». Il soggetto è l’’errore’, l’oggetto le ’mura’, niente Attila, niente belle contrade, solo pietre venerande. Verso la fine si accenna ai morti, senza numero. Eppure nel clero ci sono altre voci, basta distogliere l’orecchio dalle alte gerarchie e ascoltare più giù. Sentito il 30 luglio 1944 dagli americani, il prete Guido Campigli, che era in chiesa, è certo che siano stati i tedeschi e fa un’osservazione assennata: non c’era motivo per concentrare i sanminiatesi nel duomo, costringendoli a lasciare i rifugi che si erano scelti per conto loro. L’obiezione che a volte è stata contrapposta, ossia che i tedeschi volessero proteggere la popolazione meglio di quanto si proteggesse da sé, ha un retrogusto di umorismo nero, se si considerano le loro stragi di civili, oltre quindicimila morti, di cui almeno cinquemila in Toscana. Nell’estate 1944 la Toscana gronda sangue ma, pensa un po’, il Terzo Reich si preoccupa dei civili a San Miniato.
Nel 2008 sul municipio sanminiatese è aggiunta un’altra lapide. Dà per certa la responsabilità americana, rimette tutto a posto come la luce in sala dopo un film, e getta lì tre parole: «È la guerra». Tutto e niente, è come dire «il fato». Chiude sulla pace, ma la pace dopo aver detto così ha un sapore strano.
Certo, ognuna delle due pietre, quella del 1964 e quella del 2008, ha un senso. Ma l’insieme è tombale, sul popolo italiano. Le belle contrade righino dritto, di Attila non si parli male, anzi non sia neppure nominato, non si sa mai. Ripetiamo «pace», ma in fondo via, «è la
guerra». Adesso, c’è chi vorrebbe togliere la prima lapide, chi la seconda e chi tutt’e due. Che succede? Le due lapidi, insieme, si contraddicono. Togliere solo la prima sarebbe un controsenso,
anche perché la seconda è stata messa decidendo proprio di lasciare la precedente. Togliere solo la seconda sarebbe ammettere che si è sbagliato, e solo pochi anni fa. Toglierle entrambe sarebbe come dare torto a due litiganti
perché fanno chiasso, ed è faticoso vedere chi ha ragione; e sarebbe anche come ammettere che la seconda lapide serviva appunto solo a staccare la prima. E poi, togliere tutto lascerebbe il campo al più
efficace alleato dell’oblio: un muro cheto e ignavo, dove adesso due lapidi contrastanti stimolano la curiosità. L’ignavia è una colpa, ce lo insegna un tosco così battagliero che morì esule. Bel rompicapo.
Col naso in su a guardare le lapidi abbiamo perso di vista il vescovo, dov’è? Il 22 luglio 1944, Giubbi dopo le nove ha lasciato la cattedrale. Agli americani dirà di essere tornato in chiesa nel pomeriggio, verso le cinque o le sei. C’è un rifugio,
con dentro una cappella: quando Giubbi se ne va, è in cappella o nel rifugio? Che sottigliezze. Intorno c’è battaglia, ma non risulta che nessuno, neanche fra chi gli è vicino, proponga al vescovo di dire lui la messa nel duomo, e di farlo sapere a tutti, per canali che la Chiesa ha sempre trovato,
anche nei momenti più difficili. Eppure l’edificio è esposto, alto e imponente.
C’è chi difende Giubbi, e un suo successore ha provato a mettere in dubbio la dichiarazione agli americani, dicendo che ci sarebbe stato «un malinteso». Altro che malinteso. Un vescovo si allontana, lasciando immaginette dove dovrebbe
esserci un uomo. Chi crede ai diversamente vivi – e chi calca la terra dei cipressi ha un certo gusto, per quel più in là – immagini Giubbi che incontra Innocenzo Lazzeri, il parroco ucciso a Sant’Anna di Stazzema, o il prete Battista Pigozzi che a Cervarolo si
oppose ai massacratori e fu denudato, coperto di sputi e mitragliato. O David Berrettini, il parroco marchigiano che sfuggì ai tedeschi, e saputo del pericolo per i paesani tornò, a morire. Anzi, lo immagini di fronte ai dodici certosini di Farneta, torturati e assassinati, ci vollero anni
per raccoglierne poche ossa. Loro avvezzi a un antico silenzio, non si chiusero in un rifugio chiamato cappella: aiutarono i partigiani, l’OSS e la rete di Giorgio Nissim. Nell’orto le erbe della loro magra dieta, ma in soffitta la ricetrasmittente. C’è da stupirsi che dopo, alla morte di Giubbi,
solo l’intervento dei carabinieri impedisse un falò di festa? Certe memorie sono tenaci.
Sotto traccia, forse i veri protagonisti di questa storia sono il vescovo e la Resistenza. In fondo, si possono accusare i tedeschi senza colpa del presule, o gli Stati uniti senza coinvolgere i partigiani. Chi ha provato a farlo è rimasto sul sentiero delle dispute fredde. E anche le discussioni su spolette,
traiettorie, proiettili, non sono appaganti.
La memoria su San Miniato è così, perché ci sono percezioni che illuminano la storia schiacciando tempi e luoghi e oggetti gli uni sugli altri, come in certi sogni che apri gli occhi ed è tutto vero. La realtà non sta ferma, e a volte solo la coda dell’occhio ne fa balenare l’indice.
Certi ricordi possono essere sunti fulminei di complesse verità. Per esempio. Benedetto dalla parte peggiore del clero italiano, il fascismo ha fatto la sua fortuna, e ha dischiuso l’Italia alla morte tedesca che sferraglia sulla terra e a quella americana che cade dal cielo. Questo dicono, in Toscana, i pensieri di chi ricorda
che i tedeschi fuori del duomo prima guardavano l’orologio, e dopo non prestarono quasi nessun aiuto ai feriti. O di chi sa che i corpi erano lesi dalla vita in giù, un particolare corrente sin dai primi giorni dopo il fatto. O di chi osserva questo scandalo: un duomo ha i tedeschi alle porte, dentro un migliaio di cristiani tribolano,
e il vescovo se n’è andato. Del resto, non sarà vicino neppure ai morti: agli americani dirà di non averne fatto un elenco.
Eppure, chi sta con la Resistenza non sempre accusa il vescovo. Per esempio, il film del 1982 La notte di San Lorenzo, dei Taviani, è generoso con Giubbi: lo mostra in chiesa a dire messa, durante la strage, e in piazza, sconvolto e soccorrevole, subito dopo.
Una benevola finzione narrativa che non fu girata nel duomo di San Miniato, ma a Empoli, nella diocesi di Firenze. Invece, chi assolve il vescovo spesso condanna la Resistenza, in un modo o in un altro. Anzi, la colpevolizzazione dei partigiani, a leggerla nel susseguirsi temporale delle varie tesi, svela uno scivolo furbo e odioso: all’inizio
si è detto semplicemente che è stata l’artiglieria Usa, poi che i partigiani l’hanno saputo in seguito ma hanno taciuto, poi ancora che l’hanno saputo sempre, lo sapevano il giorno stesso, perché collaboravano con gli Usa durante la battaglia. E poi, facendo leva sul fatto che comunicavano con gli Alleati, si è suggerito che gli stessi partigiani dirigessero il tiro trasmettendo deliberatamente le coordinate della chiesa, e che volessero la strage per accusare i tedeschi: una menzogna con cui si macchia la Resistenza di un crimine mostruoso. Un po’ alla volta, si vuole portare la memoria dove mai avrebbe sospettato di arrivare.
Il fatto è che, da anni, la responsabilità tedesca si cerca con ogni mezzo di negarla. C’è uno scritto di Franco Cardini pubblicato su «L’Italia settimanale» a luglio 1994, nel cinquantesimo anniversario e nel clima del primo berlusconismo, con l’Msi al governo, che accosta la strage di San Miniato
e quella avvenuta nel Padule di Fucecchio, dall’altra parte del fiume, il 23 agosto 1944, di 174 morti:
«Tutta la retorica panzana del “gelido eccidio” perpetrato dai tedeschi va a farsi friggere. Del resto, perché andarsi a inventare un crimine inesistente? Le truppe germaniche si resero responsabili, proprio a due passi da San Miniato, del cosiddetto “eccidio del Padule di Fucecchio”. Ma anche di quello, guarda un po’, la gente parla poco volentieri. Dicono che alla radice di tutto vi fosse un gesto
terroristico abbastanza inconsulto, o meglio, uno di quelli che avevano la sola logica (quella sì, “gelida”) di provocare una rappresaglia per sfruttare poi il risentimento della popolazione».
Cioè, la strage di San Miniato è americana, e l’insistenza a negarlo tradisce una verità nascosta: i tedeschi non sono responsabili neppure di Fucecchio. Su una riva e sull’altra dell’Arno, i nazifascisti sono innocenti. San Miniato e Fucecchio sono due fatti diversissimi, ma a certe conclusioni si arriva
per strade diverse, anche opposte, in mezzo a un acquitrino o in cima a un colle, proprio perché riguardano l’immagine che si ha di sé.
Ancora, a proposito di anniversari. Nel 1954, per il decennale, il canonico Enrico Giannoni sostiene su un giornale la responsabilità americana, ma la tesi fa poca presa. Gli anni Cinquanta passano, e dopo che nel 1960 l’indagine giudiziaria è sprofondata nell’armadio della vergogna insieme a tante altre,
ecco che nel 1964, per il ventennale, c’è il manifesto della diocesi. Poi un trentennio in sordina, interrotta nel 1982 dal film dei Taviani e dalle proteste benpensanti, e ancora nel 1988 da qualche presa di posizione in favore della responsabilità americana, preceduta dalla scrittura dell’ambiguo libro di un tedesco, Hartmut Köhler.
Nel 1994 l’armadio della vergogna viene rimesso in moto, e nello stesso periodo, per il cinquantesimo anniversario, l’articolo di Cardini si affaccia su una stagione di iniziative editoriali, di cui molte orientate per la responsabilità degli Alleati. Nel 2004, per il sessantesimo, arriva la seconda indagine del Comune, che apre la strada alla nuova lapide.
Adesso, per il settantesimo, una memoria inceppata confina la strage nei discorsi ufficiali, ma teme il dibattito popolare.
Quando la luce riempie la via, a San Miniato, si vedono i buchi sulla lapide di Luigi Russo. Si legge «Attila» e «belle contrade».