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   Gramsci ad 80 anni dalla morte


La mattina del 27 aprile 1937 muore a Roma Antonio Gramsci. Filosofo e attivista politico, nasce ad Ales (Cagliari) il 22 gennaio 1891. Fu tra i fondatori del partito comunista italiano (Livorno 1921). Nel 1924 viene eletto deputato e nel 1926 diventa segretario generale del partito comunista. Arrestato dal regime fascista l'8 novembre 1926 viene condannato a 20 anni, 4 mesi, e 5 giorni di carcere, da scontare nel penitenziario di Turi (Bari). Il terrore che Gramsci incuteva al fascismo viene confessato apertamente dal Pubblico Ministero del Tribunale Speciale quando, chiedendone la condanna, afferma: «Per vent'anni dobbiamo impedire a questo cervello di funzionare». Nel 1934, a causa delle sue pessime condizioni di salute, Gramsci ottiene la libertà condizionale. Muore nell'aprile del 1937 nella clinica romana "Quisisana" a seguito di un'emorragia celebrale, pochi giorni dopo aver finito di scontare la sua pena.

 


«Non so più cosa scriverti per consolarti e farti stare con l',animo tranqullo. Sulla tranquillità del mio spirito non devi mai avere dei dubbi. Non sono un bambino né un bamboccio, ti pare? La mia vita è sempre stata regolata e diretta dalle mie convinzioni, che non erano certo né capricci passeggeri, néimprovvisazioni del momento. Perciò anche il carcere era una possibilità da affrontare, se non come un divertimento leggero, come una necessità di fatto che non mi spaventava come ipotesi e non mi avvilisce come stato di cose reale.».

«Ho già ricevuto la sentenza di rinvio a giudizio, compilata dalla Commissione istruttoria presso il Tribunale speciale. Non ho appreso da essa nulla di nuovo. Contro di me non è portata nessuna accusa concreta, suffragata da prove documentarie e testimoniali. Ci sono quattro funzionari della Polizia che affermano essere io responsabile di tutto il male che è successo in Italia nel 1926, anche del cattivovo raccolto [&ellip;] Bisogna proprio che ti abitui al pensieo che sarò condannato e che necessariamente dovrò passare in carcere un certo numero di anni, che spero brevi, ma che è inevitabile.».

«Io non parlo mai dell'aspetto negativo della mia vita, prima di tutto perché non voglio essere compianto: ero un combattente che non ha avuto fortuna nella lotta immediata, e i combattenti non possono e non devono essere compianti, quando essi hanno lottato non perché costretti, ma perché così hanno essi stessi voluto consapevolmente».

Nino


(Stralci di lettere alla madre scritte nelle seguenti date: 12/12/1926 - 26/3/1928 - 24/8/1931
tratte da "Lettere dal carcere")


Gramsci non ci ha lasciato libri. La sua eredità letteraria è costituita da scritti giornalisti, lettere e appunti autografi. Nel corso della sua attività di pubblicista non aveva voluto raccogliere in volume neppure una minima parte dei suoi scritti apparsi su quotidiani e riviste a partire dal 1915. I Quaderni del carcere sono un’opera postuma e incompiuta, un insieme di appunti e di note. La “scoperta” di Gramsci dipese dalle scelte dei suoi primi editori e dalla volontà di trasformare in libri ciò che non era destinato alla pubblicazione. A cominciare dalle Lettere dal carcere pubblicate nel 1947, il suo lascito ha assunto la forma del libro e oggi Gramsci è un classico della letteratura e del pensiero politico. Deputato e segretario del partito comunista, Gramsci fu arrestato a Roma l’8 novembre 1926, in flagrante violazione dell’immunità parlamentare. Il 4 giugno 1928 il Tribunale speciale per la difesa dello Stato, istituito con le leggi eccezionali fasciste, lo condannò a oltre 20 anni di reclusione.

Già dopo l’arresto, durante il periodo di confino a Ustica e in seguito nel carcere di San Vittore di Milano, manifestò il desiderio di avviare uno studio sistematico su argomenti di carattere storico e letterario, ma il permesso di scrivere gli fu concesso solo nel gennaio del 1929, mentre era detenuto nella casa penale di Turi di Bari (matricola 7047). L’8 febbraio di quell’anno stilò un primo elenco di temi riguardanti la storia italiana, la funzione degli intellettuali, la letteratura popolare e altre “quistioni” filosofiche, storiografiche e politiche. Ai suoi studi e ai suoi appunti accennò frequentemente nelle lettere inviate alla cognata Tatiana Schucht – e attraverso lei all’amico Piero Sraffa – e alla moglie Giulia, che viveva a Mosca con i figli Delio e Giuliano. Sino al 1932 si dedicò anche a traduzioni dal tedesco, dal russo e dall’inglese. Dopo aver annotato e schedato per circa tre anni
le riviste e i libri che gli era consentito leggere in carcere, iniziò a riordinare le note in nuovi quaderni da lui definiti “speciali” perché dedicati a un unico argomento (La filosofia di Benedetto Croce, Il Risorgimento italiano, Noterelle sulla politica del Machiavelli, Americanismo e fordismo, ecc.), cancellando le precedenti stesure con lunghi tratti di penna. A causa dell’aggravarsi delle condizioni di salute, nel novembre 1933 fu trasferito in una clinica a Formia, dove poté riprendere il lavoro solo nella seconda metà del 1934 dedicandosi soprattutto alla compilazione dei quaderni di carattere monografico.

Ottenuta la semilibertà nell’ottobre 1934, nell’estate del 1935 fu ricoverato a Roma nella clinica Quisisana assistito dalla cognata. Pochi giorni dopo aver riacquistato la libertà, morì il 27 aprile 1937 all’età di 46 anni. Alla sua morte i 33 quaderni furono presi in consegna da Tatiana che prima di inviarli a Mosca, dove giunsero nell’estate del 1938, li catalogò e numerò con cifre romane. I manoscritti tornarono in Italia il 3 marzo 1945 e da essi furono tratti i sei volumi della prima edizione dei Quaderni del carcere pubblicata dalla casa editrice Einaudi tra il 1948 e il 1951. Nel 1975 vennero ripubblicati da Einaudi nell’edizione critica curata dall’Istituto Gramsci. Nell’ambito dell’Edizione nazionale degli scritti di Antonio Gramsci, edita dall’Istituto della Enciclopedia italiana, è prevista la loro suddivisione in Quaderni di traduzioni, Quaderni miscellanei e Quaderni speciali. L’originalità e la ricchezza delle riflessioni gramsciane è testimoniata dal crescente numero di traduzioni dei Quaderni e dagli oltre 20 mila titoli in 41 lingue registrati dalla Bibliografia gramsciana.


(dalla presentazione della mostra dei manoscritti promossa dalla Fondazione Gramsci nel maggio 2016)


Odio gli indifferenti
«Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. L’indifferenza è il peso morto della storia. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. È la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che strozza l’intelligenza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, avviene perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia promulgare le leggi che solo la rivolta potrà abrogare, lascia salire al potere uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. Tra l’assenteismo e l’indifferenza poche mani, non sorvegliate da alcun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa; e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia altro che un enorme fenomeno naturale, un’eruzione, un terremoto del quale rimangono vittime tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch’io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo? Odio gli indifferenti anche per questo: perché mi dà fastidio il loro piagnisteo da eterni innocenti. Chiedo conto a ognuno di loro del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime. Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti»

(da "Indifferenti" 1917 Antonio Gramsci)

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