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   "Arturo" ricorda. Intervista al partigiano
    Giacomo Bruni


Giacomo Bruni: Ero uno dei partigiani dell’Oltrepo a Dongo, quando sento parlare di
fascismo mi viene freddo.


Perduco è un pittoresco paesino del
comune di Zavatterello, in questa
località abita un protagonista della
lotta di liberazione, si chiama
Giacomo Bruni  di 89 anni,  il quale mi
ha raccontato episodi inediti, che non
sempre compaiono sui libri di storia.


D - Quali motivazioni lo hanno spinto ha partecipare alla resistenza?

«I miei genitori furono semplici
coltivatori diretti e la mia famiglia
fu sempre molto religiosa. La
nostra avversione al fascismo non
ebbe mai basi ideologiche, ma
fummo stanchi delle continue
guerre della dittatura fascista.
Nonostante, la prematura
scomparsa di mio padre, Pasquale Bruni, nel 1930, io e i miei tre fratelli fummo tutti
arruolati e partecipammo alle vicende della seconda guerra mondiale.
Mio fratello Cesare della classe del 1913 fu arruolato per la guerra d’Abissinia e poi nel
1942 fu spedito sul fronte russo con la divisione “Cuneense” e fu dichiarato disperso
nel 1943 e praticamente è morto in guerra.
Mentre Giovanni del 1917 e Guido del 1910 furono arruolati come fanti e riuscirono dopo
l’otto settembre a mettersi in salvo e diventare anche loro partigiani.
Quando ritornai dal lavoro dei campi per la mietitura del frumento, il 10 giugno del 1940,
seppi della dichiarazione di guerra del duce alle potenze occidentali e mi preoccupai molto.
Speravo che la guerra finisse presto, invece nel gennaio del 1942, mi arrivò la
cartolina-precetto. Dopo alcuni giorni mi presentai a Cuneo, nella caserma del
“IV Reggimento dell’artiglieria alpina” della divisione alpina cuneense ed iniziai
l’addestramento. Fortunatamente per gravi problemi di salute, non fui inviato sul fronte
russo come mio fratello Cesare.
La notte del 25 luglio del 1943, montavo la guardia alla casa del fascio di Cuneo e mi
dissero  della caduta di Mussolini, fui contentissimo, speravo che la guerra fosse finita.
Con i resti della divisione Cuneense fui trasferito a Laives, in provincia di Bolzano e l’otto
settembre del 1943, guidati dal capitano Clavarino, combattemmo i tedeschi per tre giorni
e poi senza munizione e ordini, ci ritirammo verso Vicenza.
In seguito fui arrestato dai tedeschi e dopo alcuni giorni fuggii e verso la fine di settembre
del 1943 ritornai dai miei a Perducco e rimasi nascosto per quasi tutto l’anno.
Con il bando Graziani del febbraio del 1944, avrei dovuto presentarmi per l’arruolamento
nell’esercito di Salò. Non mi presentai e i militi delle brigate nere di Zavattarello
arrestarono mia madre Emilia Crevani. Nel marzo del 1944 dovetti consegnarmi e mi
arruolarono nell’aeronautica repubblichina con sede ad Asti e poi a Saluzzo.
Ai primi di aprile del 1944 insieme ad altri commilitoni riuscii a fuggire.
Io ed i miei fratelli “senza cartolina precetto” aderimmo alla banda del Greco (Andrea
Spannoiannis) situata a Costalta di Pecorara. Presi come nome di battaglia “Arturo”.
Successivamente costituimmo un piccolo distaccamento a Perducco. Questa formazione
partigiana fu inquadrata nella Brigata Crespi comandata da Annibale Sclavi.
La Crespi ebbe anche un cappellano militare:don Giuseppe Pollarolo, il quale celebrò,
ogni domenica le funzioni religiose ed anche i funerali come quello del patriota
Umberto Negruzzi (Berto).
»

 

D - A quali eventi bellici ha partecipato?

«All’inizio fui scarsamente armato, addirittura ebbi in dotazione un fucile da caccia.
In seguito le armi le recuperai, dopo il disarmo dei presidi nazifascisti come quello di
Zavattarello. Nell’agosto del 1944, i repubblichini installano un presidio nel castello di
Pietragavina, per poter meglio controllare l’alta valle Staffora. All’alba del 11 agosto
del 1944 io ed altri partigiani attaccammo in forze e rimasi ferito da una scheggia di
bomba a mano. Dopo mezza giornata di duro combattimento i militi della Sicherheits,
si arresero e furono fatti prigionieri. Terribile fu il rastrellamento iniziato il 24 novembre
del 1944 con la partecipazione della divisione nazista “Turkestan”, ricordati come
i “mongoli”. Durante la loro avanzata bruciarono cascinali, uccisero partigiani e sbandati.
A Zavattarello, incendiarono il castello dei conti Dal Verme ed il municipio. Sempre in
questo paese, i “mongoli” saccheggiano le abitazione dei contadini e soprattutto stuprano
numerose donne, addirittura una ragazza è stata violentata da 14 militari in fila.
Questo fu un momento triste per noi partigiani, costretti ad abbandonare i nostri presidi.
Con l’arrivo della primavera del 1945, rioccupammo le nostre zone e ci preparammo per
la battaglia finale. La mattina del 25 aprile, partimmo a piedi con il nostro comandante
Sclavi per liberare la valle Staffora e mentre fummo alle porte di Zodiaco gli aerei alleati
bombardarono il ponte sul torrente Ardivestra. Successivamente il 26 aprile entrammo
tra la folla esultante a Pavia ed con un camion, il 27 aprile, raggiungemmo Milano ed
alloggiammo nelle scuole di viale Romagna.

Il comandante della Brigata Crespi Carlo Barbieri (CIRO) con altri 11 partigiani della
medesima formazione partigiana, mi scelse per una delicata missione e mi presentò
Walter Audisio ( Valerio) che ci venne assegnato, con Alfredo Mordini ( Riccardo),
quale nostro superiore per questo compito. All’alba del 28 aprile del 1945 partii guidando
un camioncino Fiat 121 con sopra gli altri partigiani. Con noi parti una Fiat 1100 con
a bordo Valerio, Riccardo, Piero ed altri. La mattina fu molto piovosa. Intorno alle ore 14
arrivammo nel piazzale di Dongo, sulla riva del lago di Como. Consumammo un frugale
pranzo nel municipio. Nella sala del comune di Dongo, per ordine del CLNAI, i più
importanti gerarchi fascisti come Pavolini, Barracu, Zerbino e Mezzasoma, furono
processati per alto tradimento e condannati a morte. Dopo che ebbero ricevuto i conforti
religiosi, verso le cinque del pomeriggio, furono schierati contro la ringhiera del lago
e fucilati alla schiena dai partigiani della Crespi, ma anche dai patrioti locali.
Non partecipai all’esecuzione, perché dovetti guidare il camion.
I cadaveri furono caricati nel cassone del camion Fiat 634.

Arrivammo al bivio di Azzano ed subito dopo giunse l’auto con Valerio, che portava nel
sedile posteriore i cadaveri di Mussolini e di Claretta Petacci. Immediatamente caricammo
le due salme sul camion. Il duce indossava una camicia nera con uno stivale scucito
dietro, mentre la sua amante indossava abiti eleganti. Voglio precisare, dopo tanti anni,
che Mussolini fu giustiziato da Walter Audisio a Giulino di Mezzegra, come disposto
dal CLNAI.
Verso le 20 partimmo ed arrivammo intorno alle 4 del mattino del 29 aprile a Milano
e precisamente a Piazzale Loreto. Questo luogo venne scelto perché l’8 agosto del 1944
i nazifascisti fucilarono diversi partigiani ed oppositori del regime.
Io ed altri commilitoni tirammo i cadaveri giù dal camion e li depositammo in fila lungo
un marciapiedi. Tantissimo era l’odio degli italiani contro Mussolini ed i suoi gerarchi.
Mi ricordo una vecchietta che voleva strappare gli occhi al duce. Noi la spingemmo
indietro e lei prese del terriccio e lo lanciò sui cadaveri. Dovettero intervenire i vigili del
fuoco, i quali con gli idranti tennero alla larga la folla, per evitare il vilipendio delle salme.

In mattinata ritornai in viale Romagna e in seguito al comando, dove mi diedero un
premio per il compito svolto. Agli inizi di maggio del 1945, ritornai a Voghera e consegnai
le armi. Avendo la patente da camionista, feci numerosi viaggi anche a Bolzano da dove
riportai, in Oltrepo Pavese, i numerosi prigionieri italiani liberati dai lager in Germania.
Ancora oggi quando sento parlare di fascimo, mi viene freddo. È un grave errore storico,
una vergogna la lapide al castello di Voghera, che ricorda i militi della Sicherheits.
Le giovani generazioni non devono dimenticare i nostri sacrifici, i tanti ragazzi morti
per la nostra libertà.
»

 

Giancarlo Bertelegni