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   100 anni fa l’invasione della Libia: una
    guerra coloniale italiana (1911-2011)


Il 26 settembre il governo Giolitti invia un ultimatum alla Turchia paragonabile ad una vera e
propria dichiarazione di guerra. Al suo scadere, con il bombardamento della città di Tripoli
il 3 ottobre 1911 inizia l’avventura coloniale italiana in Libia.

 


« Alle ore 15:30 di oggi, 3 ottobre, si ode il primo colpo di
cannone della Benedetto Brin, che tira sul molo di
Tripoli…La Garibaldi che le sta vicino tira anch’essa coi suoi
pezzi da 203. Siamo a 9.500 metri, fuori del tiro dei forti di
Tripoli; vediamo la prima granata scoppiare ai piedi del
terrapieno del forte Hamidiè. Sentiamo la Brin, la Filiberto,
la Carlo Alberto tirare sul molo…verso le 16:15 siamo a
6.500 metri, ed entrano in azione le batterie da 152…il forte
Hamidiè è diventato un vulcano in eruzione…alle 17:15 viene
segnalato dalla Garibaldi l’ordine di cessate il
fuoco…osserviamo con potenti cannocchiali di bordo.
I forti fumigano come bracieri… »
(Giuseppe Piazza corrispondenza di guerra del 5 ottobre 1911)

 

E’ l’epilogo di un campagna propagandistica che coinvolge larghi strati di opinione pubblica ed è
trainata dalla stampa, che descrive la Libia  – 750.000 abitanti in gran parte nomadi distribuiti in
quello che Gaetano Salvemini definirà “un enorme scatolone di sabbia”, ultimo lembo
dell’Impero ottomano in Nord Africa – come un territorio carico di ricchezze naturali che
solo il "fecondo genio italico" sarebbe stato in grado di sfruttare.

 

   La creazione del "consenso"

clicca qui per ingrandire l’immagine L’Associazione Nazionalista Italiana, capeggiata da
Enrico Corradini, reclama la politica di aggressione
come unica politica possibile nel sorgente XX secolo.
Dichiarerà Corradini al primo Convegno Nazionalista
tenuto a Firenze alla fine del 1910: "Il nazionalismo
deve insegnare il valore della lotta internazionale,
come il socialismo ha insegnato quello di una lotta
minore, quella di classe. La lotta internazionale è la
guerra. Il fine della nazione è fuori della nazione…"
.
Non mancò l’appoggio di scrittori come D’Annunzio e
Pascoli, che proprio poco prima di morire nel suo
intervento "La grande proletaria si è mossa", tenuto al
teatro di Barga, diede una giustificazione "sociale"
al suo schierarsi a favore dell’ imperialismo.

Anche il presidente del Consiglio, Giovanni Giolitti il
7 ottobre 1911 al Teatro Regio di Torino motiva così
l’intervento:

Vi sono fatti che si impongono come una fatalità
storica alla quale nessun popolo può sottrarsi senza
compromettere in modo irreparabile il suo avvenire. In tali momenti è dovere del
Governo di assumere tutte le responsabilità perché una esitazione o un ritardo può
segnare l’inizio di una decadenza politica, producendo conseguenze che il popolo
deplorerà per lunghi anni, e talora per secoli…”


Il Partito Socialista Italiano (diviso da un’aspra polemica interna sull’atteggiamento da tenere di
fronte alla politica governativa) si schierò a maggioranza contro la guerra, anche attraverso
una mobilitazione di piazza, duramente repressa.
Lo sciopero generale indetto per il 26 settembre 1911 ha successo solo in alcune zone del nord (a Milano ci sono scontri durissimi) ma non a Genova, in Romagna ed in altre zone del centro, mentre a Roma, Napoli e nel meridione in genere i risultati furono scarsi.

 

   La "Conquista"

Dopo l’avvio delle operazioni militari, guidate dal generale Carlo Caneva, nell’arco di una
quindicina di giorni i maggiori centri abitati della costa vengono conquistati. La guerra si presenta
come una sorta di facile scorribanda per le truppe italiane, ma non sarà così come si evince dal
breve brano descrittivo (in formato pdf 134kb) estratto dalla "Breve storia dell’esercito
italiano dal 1861 al 1943"
di Giorgio Rochat e Giulio Massobrio (ed. Einaudi 1973).
clicca qui per ingrandire l’immagine Il controllo delle zone interne costerà un
prezzo altissimo di vittime sia tra la
popolazione civile – che si oppone
all’invasione – che tra i militari turchi e
italiani. La vicenda più sanguinosa avviene
nel villaggio di Sciara Sciat, alla periferia di
Tripoli, il 23 ottobre 1911, dove le difese
italiane allestite all’interno di un enorme
palmeto dell’oasi (un vero labirinto di sentieri,
muretti, case, pozzi) vengono travolte da un
attacco turco-arabo che provoca la morte di oltre 500 militari.A seguito di questo episodio
si scatena una feroce rappresaglia che porta all’uccisione di un migliaio di arabi (anche se fonti
libiche ed alcune europee parlano di circa 4.000 morti), accusati di aver “tradito” gli italiani che
intendevano “liberarli” dalla presenza turca. clicca qui per ingrandire l’immagine
Una giustificazione strumentale e falsa,
perché si tratta di una autentica
ribellione alla presenza delle nostre
truppe.
Così l’emblema di quei giorni è la forca
eretta nella piazza del Pane di Tripoli,
alla quale vengono appesi, in una sola
volta, quattordici arabi.
Ma non c’è solo questo. Giolitti, il
24 ottobre 1911, invia un telegramma
al generale Caneva nel quale afferma:

 

   Deportati

Ma le Tremiti non sono le uniche
destinazioni dei libici condannati
all’imbarco forzato.Ustica, Ponza,
Caserta, Gaeta, Favignana

diventano gli altri luoghi di arrivo
dei deportati. Il loro numero
complessivo non è ancora stato
stabilito, ma il criterio della
deportazione vede coinvolti uomini
di tutte le età, che non sono
nemmeno identificati al momento
dell’imbarco, spesso arrestati
casualmente per le strade o nelle case
. Così scrive il rapporto della Commissione dei prigionieri al ministro per la Guerra:

Gli arresti che hanno preceduto il trasferimento coatto sono avvenuti in modo frettoloso;
gli arrestati sono un miscuglio di mendicanti, di ricchi proprietari, di lavoratori, di
fruttivendoli, di mercanti, di contadini e di anziani, e di donne e bambini e ragazzi, e i loro
nomi non sono stati registrati nelle liste, se non dopo il loro arrivo in Italia, giacché le
autorità italiane in Libia non se ne sono occupate vista la precipitazione con la quale
i deportati sono stati imbarcati sulle navi”
. clicca qui per ingrandire l’immagine

«Siamo in piccole celle, pressati,
senza la luce del sole
chiuse le porte di ferro serrate.
E ovunque io guardi, non vedo che Italiani.»

Fadil Hasin ash - Shalmani, poeta di Misurata,
condannato da un tribunale di Bengasi a 25 anni
di reclusione
ne sconta sette nell’isola di Favignana.

 

“Al 31 gennaio 1912…queste erano le presenze nelle varie colonie: 654 deportati a Gaeta, 136 a Ponza, 1080 alle Tremiti, 834 ad Ustica e 349 a Favignana”
(Simone Bernini - Documenti sulla repressione italiana in Libia agli inizi della colonizzazione)

 

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