L’aria
di Salò comincia a spirare su Pavia appena due giorni dopo
l’armistizio.
"Giubilanti", i primi neofascisti compaiono in Strada
Nuova dietro la scia dei carri armati
e dei mezzi corazzati della
Wehrmacht.
Personaggi, simboli, liturgie che sembravano dover
appartenere per sempre al passato tornano ancora di prepotente
attualità.
Sui muri i primi manifesti la dicono già lunga sulla nuova
situazione.
Non c’è potere che non sia in mano ai tedeschi.
Per loro un prigioniero inglese o americano non vale più di
1.800 lire.
Chi lo aiuta rischia la fucilazione.
Gli sbandati sono
avvertiti: chi era in servizio l’8 settembre si deve presentare
immediatamente.
Non sono tollerati scioperi e atti di sabotaggio, pena
la più dura repressione.
In questo clima, a metà settembre, la federazione fascista
riapre i suoi battenti, dopo il letargo dei quarantacinque giorni.
Non
siamo ancora, è vero, all'atto di nascita ufficiale del
neofascismo pavese.
La sua breve e tragica stagione comincia, infatti,
soltanto alla fine del mese. La data è
il 29 settembre; il
luogo, il Broletto; l’occasione, la prima riunione del fascio
repubblicano.
C’è ancora tanta confusione.
Mussolini ha
lasciato Monaco da appena quattro giorni.
Da due soltanto si
è riunito, per la prima volta, il Consiglio dei ministri.
Il
nuovo Stato non esiste ancora; non ha un nome né una
capitale e fatica persino a trovare un’etichetta.
Alla paura si alterna
la prudenza; segnali di stanchezza si intrecciano a palesi forme di
opportunismo.
I quadri sono pochi e non possono bastare le
dichiarazioni di fede entusiasta o i roboanti
richiami alla
"virilità dell’azione" per mascherare il vuoto di idee, la
mancanza di programmi,
l’incertezza dei momento.
Si parla di ritorno alle origini e alla purezza ideologica della prima
ora; di ferrea selezione
dei quadri e di punizione per i traditori.
L’adesione ai "postulati della nuova azione" annunciata da Mussolini
la
si vuole "assoluta e incondizionata".
Del
programma si esaltano soprattutto gli aspetti sociali e ci si ricorda,
per l’occasione, di quell’anticapitalismo operaio di vecchia maniera
col quale si vorrebbe
accreditare, per il nuovo partito, una rinnovata
immagine popolare e di sinistra.
Non mancano mai, nelle tante assemblee
o negli echi di quelle solenni dichiarazioni
che rimbalzano
puntualmente sul "Popolo Repubblicano,"il neonato organo della
federazione,
che varranno al neofascismo pavese i
rimproveri degli stessi storici di parte fascista.
Le domande di iscrizione al PFR [Partito Fascista Repubblicano] sono
subito sottoposte
al vaglio di un’apposita commissione nominata
dall’assemblea del 29 settembre.
Appena avviato il faticoso processo di
riorganizzazione, si tirano le prime somme.
Al nuovo partito
c’è chi aderisce e chi no.
Molti han già capito
che il fascismo sta combattendo la sua estrema battaglia, velleitaria
quanto tragica e disperata.
Fra gli ex gerarchi e i quadri dei
ventennio le defezioni non si contano.
A schierarsi sotto la bandiera
di Salò sono soprattutto gli squadristi della prima ora,
quelli che la normalizzazione aveva emarginato o che prima del 25
luglio avevano assunto
"atteggiamenti di assenteismo o di vero e
proprio dissidentismo."
Non mancano certo gli opportunisti, i
"cortigiani" di sempre, gli individui
buoni per tutte le bandiere.
Se
per qualcuno è bastato "un nulla" per trovarsi da questa
piuttosto che dall’altra parte,
c’è anche chi ci crede, e
sono un certo numero.
Ci sono i giovani o i giovanissimi, per i quali
il fascismo, quello autentico,
comincia soltanto dopo l’8 settembre.
Costoro sanno, in fondo, di essere chiamati a combattere una battaglia
senza prospettiva,
già persa in partenza.
Eppure son
convinti, nel clima di cupa chiusura, di eroica disperazione e di
esaltazione
della morte che caratterizza la vicenda di Salò,di dover vendere cara la pelle.
Quel che li porta a uccidere e a farsi
uccidere - al di là dei tanti episodi di crudeltà
gratuita -
è un’illusoria speranza di purificazione e di
riscatto.
C’è infatti anche chi sceglie Salò per
un malinteso ma convinto senso personale
dell’onore e della
dignità nazionale.
Ci sono gli illusi, pochi, e quelli in
buona fede.
C’è, infine, un buon numero di profughi e
sfollati dal Meridione e dalla Toscana ( ma anche
dalla Liguria e dal
Piemonte ) che a Pavia andranno a infoltire gli scarsi quadri dirigenti
locali.
In effetti, non sono davvero molti coloro che possono dire di
appartenere a pieno titolo
al nucleo storico dei PFR pavese.
Certamente
lo sono Piero Asti, commissario provvisorio fino a tutto ottobre e
membro
del primo direttorio nazionale del partito;
Angelo Musselli,
responsabile dell’Uffìcio provinciale
per la
riorganizzazione e il controllo dei fasci repubblicani, segretario
federale, prima,
e poi questore; Fausto Pivari, vice segretario della
federazione e direttore,
per un breve periodo, del "Popolo
Repubblicano".
Con Salò si schierano subito anche Amore
Maggi, consigliere delegato dell’Opera nazionale
mutilati e
responsabile amministrativo della federazione, Oddo Bacchetta, Callisto
Cova,
Antonio Riboni, Pierino Poggi e Mario Milanesi.
Gli ultimi tre,
con Musselli e Pivari, formano la segreteria del fascio di Pavia, che
sarà di fatto
l’organismo federale fino alla nomina, nel
marzo del’44, del direttorio provinciale.
Fra gli ex squadristi ci
sono, in primo piano, Edoardo Baldi, Gigi Dainotti, Marcello Zuffi
e,
soprattutto, Arturo Bianchi, cantore del fascismo locale, "uomo di
sicura fede, energico
e capace ", fondatore nel ’21 dei fascio di
Copiano e organizzatore
delle squadre del Basso pavese.
La ricomposizione delle file fasciste e del partito in provincia, se
è abbastanza veloce nella
forma, è decisamente
lenta e non priva di contraddizioni nella sostanza.
Fin da ottobre il
territorio provinciale è diviso in otto zone a cui sono
preposti
altrettanti ispettori reggenti.
Tutti i fasci maggiori ( quelli
di Stradella, Voghera, Broni, Casteggio, Vigevano, Mortara
e con essi
alcuni minori, come quelli di Canneto, Mede e Zerbolò )
possono dirsi costituiti
già ai primi del mese, anche se le
rispettive assemblee si terranno soltanto in novembre.
Secondo fonti
repubblichine, i fasci riattivati alla fine del ’43 sarebbero 126, nel
febbraio
successivo 144, in marzo 166; gli iscritti, rispettivamente,
1.702, 2.000 e 2.437.
Il 20 maggio, annuncia trionfalmente il "Popolo",
tutti i 182 fasci della provincia
"sono nuovamente in linea".
Di
questi, agli inizi di settembre, ne restano in funzione ancora 173 con
poco meno
di 2.400 iscritti, 710 sono quelli del solo capoluogo, dove
alla fine
dell’anno precedente erano 525.
In città non sono
certo pochi, ma non sembra davvero, da questi dati almeno, che la
provincia
nel suo complesso dia un grosso contributo alle fortune dei
fascismo repubblicano,
in confronto soprattutto con altre
realtà provinciali.
Le iscrizioni, del resto, nonostante i propositi ( "pochi, ma buoni -
proclama il commissario
federale Asti - poiché non
è la quantità, bensì la
qualità che conta" )
non verranno mai definitivamente
chiuse, rafforzando, al contrario, la tendenza
al partito di massa
reclutato non importa come.
Una linea, questa, che pare più
evidente nella riorganizzazione delle strutture
e degli organismi
collaterali.
Nel settembre del’44 i fasci femminili ( reggente
è Maria Del Conte) hanno in provincia
628 iscritte, l’ Opera
Nazionale Balilla (presidente provinciale è Mario
Parravicini ) 14.500.
Addirittura poco meno di 36.000 sarebbero, al 31
maggio, gli organizzati dell’OND,
suddivisi in 315 sedi, con 80 spacci
di bevande, 103 mense aziendali e 39 spacci alimentari.
I numeri, però, anche là dove sono, come in
questo caso, di un certo rispetto, non bastano
a dar conto del reale
stato di salute del fascismo repubblicano.
Sfìducia,
frustrazione, impotenza, scarsità di quadri dirigenti e un
forte malessere dilagano.
Vale in proposito, anche per la nostra
provincia, quel che si scrive in una relazione
della primavera del’44
alla Presidenza del consiglio:
"Le iscrizioni pur senza aver raggiunto grandi cifre rispetto al numero
degli iscritti
prima del 25 luglio hanno un gettito soddisfacente […]
Tutto questo però non deve indurre alla troppo benevola
convinzione che la totalità
degli iscritti sia compatta su
una direttiva e soprattutto sulle direttiva ufficiali.
Anzi, al
più superficiale degli esami si nota immediatamente la
più assoluta mancanza
di orientamento dovuta alla posizione
di critica che i fascisti hanno assunto oggi
nei riguardi del partito e
del governo.
Il senso di critica si personalizza, è vero, ma
in un senso di sfiducia che è troppo
generalizzato per non
destare le più serie preoccupazioni e così
profondo da creare un assenteismo diffuso. […]."
La
presenza tedesca a Pavia
Dopo l’8 settembre i tedeschi arrivano dappertutto per primi.
A poche
ore dall’armistizio sono in grado di controllare senza
difficoltà
i centri più importanti della
provincia.
Occupano Voghera, Stradella e l’Oltrepo fin dal
primo pomeriggio del 9 settembre;
la sera hanno superato il Po e sono
alle porte di Pavia,
Meno di 12 ore dopo la città
è nelle loro mani.
Li comanda il capitano Korsemann che con
le intimidazioni, le violenze e le razzie
si preoccupa di dar
immediatamente conto a una popolazione in preda al panico
e allo
sgomento del carattere di autentica occupazione
a cui il Paese, e la
provincia, vengono ad essere sottoposti.
Tutto, o quasi, dipende
dall’apparato politico-amministrativo imposto dalla Wehrmacht.
[…].
I padroni sono i tedeschi.
Il potere reale è il loro. In
mano hanno praticamente tutto.
Chi ha la fortuna di possedere un "papir" ( così la gente chiama, alla tedesca, quell’ambito
pezzo di carta con il timbro dell’aquila nazista ) può
circolare anche con il coprifuoco e se entra
nelle simpatie dei
tedeschi può ottenere permessi, buoni di assegnazione,
concessioni,
impunità,facendosi beffa di qualsiasi
disposizione di Salò e in barba
a tutti i gerarchi
mussoliniani.
Ogni occasione, del resto, è buona per dar
prova della propria superiorità e far capire all’alleato
chi
comanda. sia che si voglia smantellare, alla fine del ’44, nel quadro
del più ampio
sfruttamento del potenziale economico del Paese, gli impianti delle Officine del Genio Militare,
esautorando da
ogni controllo l'autorità militare italiana, sia che si
tratti di mandare
al Comune di Pavia il conto delle spese di
occupazione e dei lavori di riattamento dei locali
requisiti dai
tedeschi, sia, infine, che si intervenga durante gli scioperi
del
gennaio-febbraio 1944 nelle fabbriche di Pavia, Voghera e Vigevano e si
risponda
alle agitazioni e ai sabotaggi con la minaccia ricattatoria
della deportazione ( in qualche caso
messa a davvero in atto, su denuncia
quasi sempre, per la verità, delle direzioni aziendali ).
È un timore, quello di finire in Germania, che riguarda tutti, persino
i fascisti.
Non manca chi si serve della TODT per evitare il rischio
della deportazione
e ottenere l’esonero dal servizio militare, ma
è anche vero che, dopo la risposta iniziale
significativamente negativa,nella nostra provincia, al falso richiamo
del lavoro volontario
in Germania, l’estendersi del prelevamento
forzato di manodopera accresce la protesta
e incide pesantemente
sull’andamento dei cosiddetto "spirito pubblico".
Nel giudizio negativo della gente, infatti, fascisti e tedeschi sono
spesso accomunati.
Dalla primavera del’44 si rafforza l’avversione al
regime e cresce il suo isolamento.
Sono molte le ragioni di questo
malcontento generale e diffuso e non c’è fonte
più oggettivamente antifascista dei notiziari della GNR nel
darci il quadro del quotidiano
disfacimento politico, sociale ed
economico della RSI.
Vengon fuori da quei rapporti il diffondersi della lotta antifascista,
il nesso fra un regime
in via di decomposizione e il consenso che gli
viene a mancare man mano, l’immagine
delle difficili condizioni di
vita, un desiderio di pace che si manifesta
con una forza del tutto
eccezionale.
La gente ha fame, freddo, paura e voglia di farla finita
con i sacrifici che la guerra impone.
Il verbo di moda è "arrangiarsi".
Ci si veste alla meglio.
Le scarpe hanno le suole di gomma sintetica e sembrano di cartone.
I
vestiti, di un inqualificabile tessuto antartico al posto della lana,
non proteggono dal freddo.
Trovar da mangiare e difficile.
Si baratta un chilo di sale con un
sacco di farina.
Il regalo più gradito è un pane
bianco o, meglio ancora, un panino di burro.
Con la tessera
è impossibile vivere.
Per campare non rimane che la borsa
nera.
Se si ha il denaro sufficiente si trova in realtà di
tutto, o quasi: dal sale all’olio,
dai grassi alle sigarette, dalla
carne alla benzina. […].
La
brigata nera
Maglione nero, giubbottino a vita di panno, berretto da sciatore con il
teschio: nascono così,
in luglio, le Brigate Nere "ultima
incarnazione della brutalità di Salò".
È il
nuovo squadrismo quello che nasce, un po’ invecchiato, fanatico,
violento e intransigente,
non privo di un fondo costante di tragica
disperazione.
In ogni provincia è di stanza una brigata
territoriale, con compiti esclusivi di ordine pubblico.
Per combattere
i Partigiani sono invece costituite le "Brigate mobili", che si
spostano
là dove c’è da rastrellare e combattere.
Se le prime seminano il terrore in città, queste ultime,
dovunque vadano, lasciano puntualmente dietro di sé una
lunga scia di violenze, di razzie e di prepotenze di ogni genere.
Per
le genti delle nostre terre, costoro sono i "briganti neri" e lo stesso
sottosegretario Pini
si sente ben presto in dovere di segnalare al duce
in persona che non se ne può più di squadre,
come
le brigate nere, scatenate contro chi non la pensa come i fascisti.
Chi si arruola nella Brigata Nera sente certo il fascino della
formazione irregolare dove tutto
o quasi è permesso, ma vede
anche la possibilità, imboscandosi nella territoriale,
di
non andare a combattere in linea.
Per lo più si tratta di
individui senza credito e disprezzati dalla gente.
L’unica
autorità che conoscono è quella della canna del
mitra.
Soprattutto sono pagati molto bene:in qualche caso addirittura
il doppio di un milite della GNR.
Con la costituzione delle Brigate Nere, di fronte al proliferare dei
colpi di mano partigiani,
è giunta l’occasione per il
neofascismo di Salò di mostrare il suo volto più
duro
e intransigente.
"Il tempo di agire è ormai maturo -
proclama ai primi di luglio il federale Cattaneo; - dall’opera
di
propaganda, di persuasione e di pacificazione sinora seguite, si
è deciso di passare alla fase
dell’azione mirante a
schiacciare i rettili antinazionali e i nemici interni di ogni
categoria".
La XIV Brigata nera "Alberto Alfieri" di Pavia vede la
luce, al Broletto, il 10 luglio,
dopo una nutrita serie di incontri
preparatori. […].
Se il quartier generale, bene o male, è subito costituito,
per il resto le cose non sembrano
andare altrettanto bene.
La GNR non
perde occasione per segnalare, fra luglio e settembre, l’eccessiva
lentezza
nel lavoro di costituzione delle Brigate Nere: le adesioni
sono poche, soprattutto in città,
e l’entusiasmo che gli
aderenti dimostrano non è certo dei più
esaltanti.
Sul piano quantitativo, dati differenti in nostro possesso
vogliono la forza delle Brigate Nere
oscillante fra i 450 uomini
mobilitati a metà settembre e i 600 alla fine di dicembre.
Poco meno della metà di essi è senz’armi; molti
non hanno neppure l’uniforme.
Mancano i mezzi di trasporto e il
carburante non abbonda. […].
Per mesi sulle colline e i monti dell’Oltrepo, a Vigevano
come nei boschi del Po e del Ticino,
i brigatisti si accompagnano ai
tedeschi in azioni di rastrellamento e di rappresaglia
nel vano
tentativo di debellare la lotta partigiana, abbandonandosi spesso, con
la
giustificazione di dover rispondere colpo su colpo, a eccessi che
suscitano, ancora una volta,
le proteste di molte autorità
civili e religiose.
In città sono loro che fanno incursioni nei cinema e portano
via i giovani per mandarli
a lavorare in Germania: che piombano nelle
case "nemiche" di notte, alla ricerca di ostaggi
da consegnare ai
tedeschi; che "combattono il mercato nero requisendo sacchi di farina,
formaggi, sale e burro di cui nessuno saprà più
nulla ".
Ma la violenza e la confusione i brigatisti le portano anche
all’interno del partito.
È il loro momento e lo vogliono sfruttare
fino in fondo: son sempre pronti
a menar le mani o ad alzare la voce.
Il confronto di posizioni, con loro, diventa subito rissa.
E non
è certo senza significato che la rinnovata lotta fra
moderati e intransigenti
all’interno dei neofascismo pavese trovi nuova
linfa, come abbiamo visto, proprio
nel processo di militarizzazione del
partito.
Nemmeno la carta del "partito in armi " serve, quindi, a
Salò
È un’altra illusione che
se ne va.
E se ne va, come ha scritto Pansa,"nella rissa,
nell’indisciplina, nelle violenze. "
Da
P. Lombardi, I giorni di
Salò: tedeschi e neofascisti a Pavia 1943-45,
in "Annali di Storia pavese", n. 12/13, 1986.