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   I giorni di Salò: tedeschi e neofascisti
   a Pavia 1943-45


di Pierangelo Lombardi

L’aria di Salò comincia a spirare su Pavia appena due giorni dopo l’armistizio.
"Giubilanti", i primi neofascisti compaiono in Strada Nuova dietro la scia dei carri armati
e dei mezzi corazzati della Wehrmacht.
Personaggi, simboli, liturgie che sembravano dover appartenere per sempre al passato tornano ancora di prepotente attualità.
Sui muri i primi manifesti la dicono già lunga sulla nuova situazione.
Non c’è potere che non sia in mano ai tedeschi.
Per loro un prigioniero inglese o americano non vale più di 1.800 lire.
Chi lo aiuta rischia la fucilazione.
Gli sbandati sono avvertiti: chi era in servizio l’8 settembre si deve presentare immediatamente.
Non sono tollerati scioperi e atti di sabotaggio, pena la più dura repressione.
In questo clima, a metà settembre, la federazione fascista riapre i suoi battenti, dopo il letargo dei quarantacinque giorni.
Non siamo ancora, è vero, all'atto di nascita ufficiale del neofascismo pavese.
La sua breve e tragica stagione comincia, infatti, soltanto alla fine del mese. La data è
il 29 settembre; il luogo, il Broletto; l’occasione, la prima riunione del fascio repubblicano.
C’è ancora tanta confusione.
Mussolini ha lasciato Monaco da appena quattro giorni.
Da due soltanto si è riunito, per la prima volta, il Consiglio dei ministri.
Il nuovo Stato non esiste ancora; non ha un nome né una capitale e fatica persino a trovare un’etichetta.
Alla paura si alterna la prudenza; segnali di stanchezza si intrecciano a palesi forme di opportunismo.
I quadri sono pochi e non possono bastare le dichiarazioni di fede entusiasta o i roboanti
richiami alla "virilità dell’azione" per mascherare il vuoto di idee, la mancanza di programmi,
l’incertezza dei momento.
Si parla di ritorno alle origini e alla purezza ideologica della prima ora; di ferrea selezione
dei quadri e di punizione per i traditori.
L’adesione ai "postulati della nuova azione" annunciata da Mussolini
la si vuole "assoluta e incondizionata".

   

Del programma si esaltano soprattutto gli aspetti sociali e ci si ricorda,
per l’occasione, di quell’anticapitalismo operaio di vecchia maniera col quale si vorrebbe
accreditare, per il nuovo partito, una rinnovata immagine popolare e di sinistra.
Non mancano mai, nelle tante assemblee o negli echi di quelle solenni dichiarazioni
che rimbalzano puntualmente sul "Popolo Repubblicano,"il neonato organo della federazione, che varranno al neofascismo pavese i rimproveri degli stessi storici di parte fascista.
Le domande di iscrizione al PFR [Partito Fascista Repubblicano] sono subito sottoposte
al vaglio di un’apposita commissione nominata dall’assemblea del 29 settembre.
Appena avviato il faticoso processo di riorganizzazione, si tirano le prime somme.
Al nuovo partito c’è chi aderisce e chi no.
Molti han già capito che il fascismo sta combattendo la sua estrema battaglia, velleitaria
quanto tragica e disperata.
Fra gli ex gerarchi e i quadri dei ventennio le defezioni non si contano.
A schierarsi sotto la bandiera di Salò sono soprattutto gli squadristi della prima ora,
quelli che la normalizzazione aveva emarginato o che prima del 25 luglio avevano assunto
"atteggiamenti di assenteismo o di vero e proprio dissidentismo."
Non mancano certo gli opportunisti, i "cortigiani" di sempre, gli individui
buoni per tutte le bandiere.
Se per qualcuno è bastato "un nulla" per trovarsi da questa piuttosto che dall’altra parte,
c’è anche chi ci crede, e sono un certo numero.
Ci sono i giovani o i giovanissimi, per i quali il fascismo, quello autentico,
comincia soltanto dopo l’8 settembre.
Costoro sanno, in fondo, di essere chiamati a combattere una battaglia senza prospettiva,
già persa in partenza.
Eppure son convinti, nel clima di cupa chiusura, di eroica disperazione e di esaltazione
della morte che caratterizza la vicenda di Salò,di dover vendere cara la pelle.
Quel che li porta a uccidere e a farsi uccidere - al di là dei tanti episodi di crudeltà gratuita -
è un’illusoria speranza di purificazione e di riscatto.
C’è infatti anche chi sceglie Salò per un malinteso ma convinto senso personale
dell’onore e della dignità nazionale.
Ci sono gli illusi, pochi, e quelli in buona fede.
C’è, infine, un buon numero di profughi e sfollati dal Meridione e dalla Toscana ( ma anche
dalla Liguria e dal Piemonte ) che a Pavia andranno a infoltire gli scarsi quadri dirigenti locali.
In effetti, non sono davvero molti coloro che possono dire di appartenere a pieno titolo
al nucleo storico dei PFR pavese.
Certamente lo sono Piero Asti, commissario provvisorio fino a tutto ottobre e membro
del primo direttorio nazionale del partito; Angelo Musselli, responsabile dell’Uffìcio provinciale
per la riorganizzazione e il controllo dei fasci repubblicani, segretario federale, prima,
e poi questore; Fausto Pivari, vice segretario della federazione e direttore,
per un breve periodo, del "Popolo Repubblicano".
Con Salò si schierano subito anche Amore Maggi, consigliere delegato dell’Opera nazionale
mutilati e responsabile amministrativo della federazione, Oddo Bacchetta, Callisto Cova,
Antonio Riboni, Pierino Poggi e Mario Milanesi.

Gli ultimi tre, con Musselli e Pivari, formano la segreteria del fascio di Pavia, che sarà di fatto
l’organismo federale fino alla nomina, nel marzo del’44, del direttorio provinciale.
Fra gli ex squadristi ci sono, in primo piano, Edoardo Baldi, Gigi Dainotti, Marcello Zuffi
e, soprattutto, Arturo Bianchi, cantore del fascismo locale, "uomo di sicura fede, energico
e capace ", fondatore nel ’21 dei fascio di Copiano e organizzatore
delle squadre del Basso pavese.
La ricomposizione delle file fasciste e del partito in provincia, se è abbastanza veloce nella
forma, è decisamente lenta e non priva di contraddizioni nella sostanza.
Fin da ottobre il territorio provinciale è diviso in otto zone a cui sono preposti
altrettanti ispettori reggenti.
Tutti i fasci maggiori ( quelli di Stradella, Voghera, Broni, Casteggio, Vigevano, Mortara
e con essi alcuni minori, come quelli di Canneto, Mede e Zerbolò ) possono dirsi costituiti
già ai primi del mese, anche se le rispettive assemblee si terranno soltanto in novembre.
Secondo fonti repubblichine, i fasci riattivati alla fine del ’43 sarebbero 126, nel febbraio
successivo 144, in marzo 166; gli iscritti, rispettivamente, 1.702, 2.000 e 2.437.
Il 20 maggio, annuncia trionfalmente il "Popolo", tutti i 182 fasci della provincia
"sono nuovamente in linea".
Di questi, agli inizi di settembre, ne restano in funzione ancora 173 con poco meno
di 2.400 iscritti, 710 sono quelli del solo capoluogo, dove alla fine
dell’anno precedente erano 525.
In città non sono certo pochi, ma non sembra davvero, da questi dati almeno, che la provincia
nel suo complesso dia un grosso contributo alle fortune dei fascismo repubblicano,
in confronto soprattutto con altre realtà provinciali.
Le iscrizioni, del resto, nonostante i propositi ( "pochi, ma buoni - proclama il commissario
federale Asti - poiché non è la quantità, bensì la qualità che conta" )
non verranno mai definitivamente chiuse, rafforzando, al contrario, la tendenza
al partito di massa reclutato non importa come.
Una linea, questa, che pare più evidente nella riorganizzazione delle strutture
e degli organismi collaterali.
Nel settembre del’44 i fasci femminili ( reggente è Maria Del Conte) hanno in provincia
628 iscritte, l’ Opera Nazionale Balilla (presidente provinciale è Mario Parravicini ) 14.500.
Addirittura poco meno di 36.000 sarebbero, al 31 maggio, gli organizzati dell’OND,
suddivisi in 315 sedi, con 80 spacci di bevande, 103 mense aziendali e 39 spacci alimentari.
I numeri, però, anche là dove sono, come in questo caso, di un certo rispetto, non bastano
a dar conto del reale stato di salute del fascismo repubblicano.
Sfìducia, frustrazione, impotenza, scarsità di quadri dirigenti e un forte malessere dilagano.
Vale in proposito, anche per la nostra provincia, quel che si scrive in una relazione
della primavera del’44 alla Presidenza del consiglio:

"Le iscrizioni pur senza aver raggiunto grandi cifre rispetto al numero degli iscritti
prima del 25 luglio hanno un gettito soddisfacente […]
Tutto questo però non deve indurre alla troppo benevola convinzione che la totalità
degli iscritti sia compatta su una direttiva e soprattutto sulle direttiva ufficiali.
Anzi, al più superficiale degli esami si nota immediatamente la più assoluta mancanza
di orientamento dovuta alla posizione di critica che i fascisti hanno assunto oggi
nei riguardi del partito e del governo.
Il senso di critica si personalizza, è vero, ma in un senso di sfiducia che è troppo
generalizzato per non destare le più serie preoccupazioni e così
profondo da creare un assenteismo diffuso. […]."


La presenza tedesca a Pavia

Dopo l’8 settembre i tedeschi arrivano dappertutto per primi.
A poche ore dall’armistizio sono in grado di controllare senza difficoltà
i centri più importanti della provincia.
Occupano Voghera, Stradella e l’Oltrepo fin dal primo pomeriggio del 9 settembre;
la sera hanno superato il Po e sono alle porte di Pavia,
Meno di 12 ore dopo la città è nelle loro mani.
Li comanda il capitano Korsemann che con le intimidazioni, le violenze e le razzie
si preoccupa di dar immediatamente conto a una popolazione in preda al panico
e allo sgomento del carattere di autentica occupazione
a cui il Paese, e la provincia, vengono ad essere sottoposti.
Tutto, o quasi, dipende dall’apparato politico-amministrativo imposto dalla Wehrmacht. […].
I padroni sono i tedeschi.
Il potere reale è il loro. In mano hanno praticamente tutto.
Chi ha la fortuna di possedere un "papir" ( così la gente chiama, alla tedesca, quell’ambito
pezzo di carta con il timbro dell’aquila nazista ) può circolare anche con il coprifuoco e se entra
nelle simpatie dei tedeschi può ottenere permessi, buoni di assegnazione, concessioni,
impunità,facendosi beffa di qualsiasi disposizione di Salò e in barba
a tutti i gerarchi mussoliniani.
Ogni occasione, del resto, è buona per dar prova della propria superiorità e far capire all’alleato
chi comanda. sia che si voglia smantellare, alla fine del ’44, nel quadro del più ampio
sfruttamento del potenziale economico del Paese, gli impianti delle Officine del Genio Militare,
esautorando da ogni controllo l'autorità militare italiana, sia che si tratti di mandare
al Comune di Pavia il conto delle spese di occupazione e dei lavori di riattamento dei locali
requisiti dai tedeschi, sia, infine, che si intervenga durante gli scioperi
del gennaio-febbraio 1944 nelle fabbriche di Pavia, Voghera e Vigevano e si risponda
alle agitazioni e ai sabotaggi con la minaccia ricattatoria della deportazione ( in qualche caso
messa a davvero in atto, su denuncia quasi sempre, per la verità, delle direzioni aziendali ).
È un timore, quello di finire in Germania, che riguarda tutti, persino i fascisti.
Non manca chi si serve della TODT per evitare il rischio della deportazione
e ottenere l’esonero dal servizio militare, ma è anche vero che, dopo la risposta iniziale
significativamente negativa,nella nostra provincia, al falso richiamo del lavoro volontario
in Germania, l’estendersi del prelevamento forzato di manodopera accresce la protesta
e incide pesantemente sull’andamento dei cosiddetto "spirito pubblico".
Nel giudizio negativo della gente, infatti, fascisti e tedeschi sono spesso accomunati.
Dalla primavera del’44 si rafforza l’avversione al regime e cresce il suo isolamento.
Sono molte le ragioni di questo malcontento generale e diffuso e non c’è fonte
più oggettivamente antifascista dei notiziari della GNR nel darci il quadro del quotidiano
disfacimento politico, sociale ed economico della RSI.
Vengon fuori da quei rapporti il diffondersi della lotta antifascista, il nesso fra un regime
in via di decomposizione e il consenso che gli viene a mancare man mano, l’immagine
delle difficili condizioni di vita, un desiderio di pace che si manifesta
con una forza del tutto eccezionale.
La gente ha fame, freddo, paura e voglia di farla finita con i sacrifici che la guerra impone.
Il verbo di moda è "arrangiarsi".
Ci si veste alla meglio.
Le scarpe hanno le suole di gomma sintetica e sembrano di cartone.
I vestiti, di un inqualificabile tessuto antartico al posto della lana, non proteggono dal freddo.
Trovar da mangiare e difficile.
Si baratta un chilo di sale con un sacco di farina.
Il regalo più gradito è un pane bianco o, meglio ancora, un panino di burro.
Con la tessera è impossibile vivere.
Per campare non rimane che la borsa nera.
Se si ha il denaro sufficiente si trova in realtà di tutto, o quasi: dal sale all’olio,
dai grassi alle sigarette, dalla carne alla benzina. […].


La brigata nera

Maglione nero, giubbottino a vita di panno, berretto da sciatore con il teschio: nascono così,
in luglio, le Brigate Nere "ultima incarnazione della brutalità di Salò".
È il nuovo squadrismo quello che nasce, un po’ invecchiato, fanatico, violento e intransigente,
non privo di un fondo costante di tragica disperazione.
In ogni provincia è di stanza una brigata territoriale, con compiti esclusivi di ordine pubblico.
Per combattere i Partigiani sono invece costituite le "Brigate mobili", che si spostano
là dove c’è da rastrellare e combattere.
Se le prime seminano il terrore in città, queste ultime, dovunque vadano, lasciano puntualmente dietro di sé una lunga scia di violenze, di razzie e di prepotenze di ogni genere.
Per le genti delle nostre terre, costoro sono i "briganti neri" e lo stesso sottosegretario Pini
si sente ben presto in dovere di segnalare al duce in persona che non se ne può più di squadre,
come le brigate nere, scatenate contro chi non la pensa come i fascisti.
Chi si arruola nella Brigata Nera sente certo il fascino della formazione irregolare dove tutto
o quasi è permesso, ma vede anche la possibilità, imboscandosi nella territoriale,
di non andare a combattere in linea.
Per lo più si tratta di individui senza credito e disprezzati dalla gente.
L’unica autorità che conoscono è quella della canna del mitra.
Soprattutto sono pagati molto bene:in qualche caso addirittura il doppio di un milite della GNR.
Con la costituzione delle Brigate Nere, di fronte al proliferare dei colpi di mano partigiani,
è giunta l’occasione per il neofascismo di Salò di mostrare il suo volto più duro
e intransigente.
"Il tempo di agire è ormai maturo - proclama ai primi di luglio il federale Cattaneo; - dall’opera
di propaganda, di persuasione e di pacificazione sinora seguite, si è deciso di passare alla fase
dell’azione mirante a schiacciare i rettili antinazionali e i nemici interni di ogni categoria".

La XIV Brigata nera "Alberto Alfieri" di Pavia vede la luce, al Broletto, il 10 luglio,
dopo una nutrita serie di incontri preparatori. […].
Se il quartier generale, bene o male, è subito costituito, per il resto le cose non sembrano
andare altrettanto bene.
La GNR non perde occasione per segnalare, fra luglio e settembre, l’eccessiva lentezza
nel lavoro di costituzione delle Brigate Nere: le adesioni sono poche, soprattutto in città,
e l’entusiasmo che gli aderenti dimostrano non è certo dei più esaltanti.
Sul piano quantitativo, dati differenti in nostro possesso vogliono la forza delle Brigate Nere
oscillante fra i 450 uomini mobilitati a metà settembre e i 600 alla fine di dicembre.
Poco meno della metà di essi è senz’armi; molti non hanno neppure l’uniforme.
Mancano i mezzi di trasporto e il carburante non abbonda. […].
Per mesi sulle colline e i monti dell’Oltrepo, a Vigevano come nei boschi del Po e del Ticino,
i brigatisti si accompagnano ai tedeschi in azioni di rastrellamento e di rappresaglia
nel vano tentativo di debellare la lotta partigiana, abbandonandosi spesso, con la
giustificazione di dover rispondere colpo su colpo, a eccessi che suscitano, ancora una volta,
le proteste di molte autorità civili e religiose.
In città sono loro che fanno incursioni nei cinema e portano via i giovani per mandarli
a lavorare in Germania: che piombano nelle case "nemiche" di notte, alla ricerca di ostaggi
da consegnare ai tedeschi; che "combattono il mercato nero requisendo sacchi di farina,
formaggi, sale e burro di cui nessuno saprà più nulla ".
Ma la violenza e la confusione i brigatisti le portano anche all’interno del partito.
È il loro momento e lo vogliono sfruttare fino in fondo: son sempre pronti
a menar le mani o ad alzare la voce.
Il confronto di posizioni, con loro, diventa subito rissa.
E non è certo senza significato che la rinnovata lotta fra moderati e intransigenti
all’interno dei neofascismo pavese trovi nuova linfa, come abbiamo visto, proprio
nel processo di militarizzazione del partito.
Nemmeno la carta del "partito in armi " serve, quindi, a Salò È un’altra illusione che se ne va.
E se ne va, come ha scritto Pansa,"nella rissa, nell’indisciplina, nelle violenze. "

 

Da P. Lombardi, I giorni di Salò: tedeschi e neofascisti a Pavia 1943-45,
in "Annali di Storia pavese", n. 12/13, 1986.