L’Oltrepo
pavese era un terreno davvero adatto alla guerriglia e alla Resistenza?
La risposta pareva, allora, tutt’altro che scontata. Il dibattito fu
accesissimo per tutti
i primi mesi del ’44 e interessò
soprattutto i comunisti.
Per il Pci pavese la definitiva scelta della lotta armata si
rivelò in partenza senz’altro difficile.
Se il sabotaggio e
il
colpo di mano diventarono subito patrimonio comune della lotta politica
dei comunisti, la convinzione che l'atteggiamento ostile ai
nazifascisti si dovesse tradurre
in azione militare su vasta scala e in
guerriglia organizzata incontrava, al contrario,
non poche opposizioni.
Non ne erano convinti certi anziani che ritenevano non fosse ancora
maturo il momento storico
o che consideravano impari la lotta in armi
contro i tedeschi.
Perplessi erano anche coloro che, dopo alcune ispezioni, non ritenevano
adatta per la guerriglia
la provincia e l’Oltrepo, in
particolare.
Pesavano, soprattutto, due argomentazioni.
Il territorio
si presentava agli osservatori poco accidentato, con montagne non
elevate
e facilmente raggiungibili da più parti.
La Liguria alle spalle non avrebbe consentito, in caso di
difficoltà, sicure vie di fuga.
L’altra ragione metteva in
conto
la presenza di un territorio largamente antropizzato
e coltivato,
specie nell’ampia zona collinare, che avrebbe reso problematica la
lotta partigiana.
Gli echi di quest’ultima questione riemergeranno nel corso della
Resistenza,
tanto tra i Partigiani che, per radicarsi e sopravvivere,
dovranno cercare di entrare in sintonia,
se non in simbiosi, con quel
mondo contadino, condividendone i valori, quanto tra i fascisti
che,
tra una rappresaglia e l’altra, non potranno pensare di sterminare o
cacciare in blocco
quella popolazione, nominalmente appartenente, tra
l’altro, alla repubblica neofascista. […].
Il
territorio dell’Oltrepo non è per nulla omogeneo
[…] e quella che ne vien fuori è davvero
una grande
varietà di situazioni locali.
Diversa è, ad
esempio, la
realtà di Voghera, sede di milizia e di GNR, che pare scossa
soltanto
dal duplice bombardamento alleato, o la relativa
tranquillità delle piccole parrocchie di pianura,
rispetto a Broni, dove la situazione è ben più drammatica
per la
presenza, dal settembre 1944,
dei neofascisti della Sicherheits,
presenza a sua volta spiegabile con la collocazione
del paese allo
sbocco della Valle Scuropasso e strategicamente importante per le
frequenti puntate
partigiane sulla via Emilia.
La montagna vive buona parte del periodo sotto il controllo partigiano,
che comunque non è
in grado di assicurare la relativa quiete
della pianura, non foss’altro per le consuete puntate
offensive
neofasciste.
In condizioni più precarie, di
instabilità e
insicurezza, sembra vivere la collina, specie
nella sua parte
settentrionale e, sia pure meno drammaticamente, la media Valle
Staffora.
I diari dei parroci - ma, ovviamente non solo loro - ci danno anche uno
spaccato davvero
significativo dell’adesione della popolazione locale
alla Resistenza, suggerendo, nel contempo,
anche una varietà
di
situazioni e di sfumature e di grande interesse.
Quel che è
subito evidente è il quadro generale - confermato e
verificato
da una molteplicità
di altre fonti - di una adesione diffusa
alla Resistenza da parte della popolazione.
E questa adesione è direttamente proporzionale all’azione
indiscriminata di repressione
e intimidazione di chi - per dirla con
don Agostino Alberti - "con atteggiamenti protervi"
vuol "pacificare i
nostri monti col terrore".[…].
Analizzando
la risposta ai bandi di leva delle classi '23, '24, '25, '26 in venti
comuni significativi
della montagna e della bassa e media collina, si
ha la misura sbalorditiva del fallimento
neofascista sul terreno
dell’esercito e, quindi, del consenso al nuovo Stato.
Su 1271 richiamati, soltanto 48 ( neppure il 4% ) aderiscono a
Salò; il 27% sono Partigiani;
più della
metà vive
nascosta presso le famiglie, almeno fino alla tarda estate del 1944,
trovando nei boschi riparo dalle incursioni fasciste.
La percentuale
dei"ribelli" cresce in montagna ( 35% ) , mentre gli attendisti risultano
essere
più numerosi in alta collina (66%), considerata, dopo
il
disarmo dei presidi fascisti, zona neutra
e quindi aperta la passaggio
di tutti.
Ci sono paesi nei quali la maggioranza dei giovani entra nei
partigiani; in altri non si dà
neppure un"ribelle";
abbastanza
diffusa è la collaborazione attiva con i partigiani,
quando lo
richiedono le necessità difensive.
Le adesioni dirette e,
più ancora, il vasto tessuto di solidarietà e
connivenze
testimoniano,
dunque, assai più e meglio che non il numero
degli
armati, della presa popolare esercitata
in zona dalla Resistenza,
contro un neofascismo che si propone fin dall’inizio come un fenomeno
elitario e largamente minoritario ( la provincia di Pavia è,
tra
l’altro, agli ultimi posti
per le adesioni al partito fascista
repubblicano con 2400 iscritti, nel settembre 1944, rispetto
ai 7000 di
Cremona o agli 8500 di Brescia ).
Tutto ciò non elimina, beninteso, momenti di tensione e di
difficoltà tra popolazione
e Partigiani, laddove
mentalità, comportamenti e situazioni si scontrano man mano
con
i caratteri, le esigenze e il procedere della lotta.
Queste difficoltà sono avvertibili in almeno tre
circostanze:
a)
nel contrasto, ricomposto solo nel corso della lotta, tra il contadino
e/o il montanaro
che si batte sull’uscio di casa, consapevole delle
conseguenze che dal suo gesto derivano immediatamente ai paesi e alle
famiglie, e il cittadino, operaio o borghese, politicamente
più
motivato, spesso oggetto di una secolare diffidenza maturata nei
confronti del "forestiero";
b) nelle difficoltà ad accettare
la
radicalizzazione di uno scontro che spesso non tiene conto
delle
tradizioni, delle culture e dei valori largamente cristiani della
società contadina
e di una struttura socio-economica
articolata,
in cui sommari processi alla proprietà rischiavano
di
trasformarsi in concrete spoliazioni del proprietario, più o
meno agiato;
c) nei momenti, infine, della rappresaglia più
dura. In quest’ultimo caso, se è vero che,
generalmente, si
accentua l’odio per i fascisti impegnati nei rastrellamenti
[…]
non mancano
evidenti gradazioni di atteggiamenti, gli sbandamenti e i
momenti di crisi provocati
dalla paura ( né era altro, a ben
vedere, il fine ultimo della violenza brutale scatenata dai tedeschi e
dai fascisti contro la popolazione civile ).
Nell’inverno ’44- ’45, in effetti, sembra che il fragile tessuto
resistenziale di copertura del
territorio sia destinato a lacerarsi.
Basti, per tutte, l'immagine dell’ispettore partigiano Riccardo che, l’11 dicembre,
deve costringere con la pistola in pugno i contadini
riottosi a trasportare sei feriti
evacuati dall’ospedale di Cencerate fino a Capannette di Pej.
Da
P.
Lombardi, La Resistenza
nell'Oltrepò pavese,
in "Storia
in Lombardia", n. 2/3, 1998.