La notizia dell’eccidio si diffuse rapidamente suscitando una grande emozione in tutta Italia.
La CGIL proclamò
per il 3 maggio uno sciopero generale e puntò il dito contro la
“ la volontà dei latifondisti siciliani di soffocare nel sangue le organizzazioni
dei lavoratori”.
Anche gli inquirenti qualche idea sulle responsabilità
della strage l’avevano maturata. La Polizia sembrò non
avere dubbi nell’indicare quale esecutore materiale
della strage il bandito Giuliano, ma piuttosto restia a
imboccare la strada del delitto politico. Il rapporto
inviato al Ministro dell’interno, Mario Scelba, rivelava
come nulla risultasse al riguardo, anche se non si
poteva del tutto escludere che «l’idea di un’azione
criminosa contro i partiti della sinistra» fosse stata
«ispirata e rafforzata specialmente da qualche
elemento isolato in strette inconfessabili relazioni
col bandito Giuliano».
Complicità più precise ed estese lasciava intravedere
invece il rapporto dei Carabinieri al Comando generale
dell’Arma, che individuò come possibili mandanti
«elementi reazionari in combutta con la mafia
locale».
Il 2 maggio Scelba, chiamato a rispondere davanti
all’Assemblea costituente, fece subito capire quale indirizzo
avrebbero preso le indagini, affermando: «questo non è un
delitto politico e non può essere un delitto politico - fu la
singolare argomentazione del Ministro - perché nessuna
organizzazione politica potrebbe rivendicare a sé la
manifestazione e la sua organizzazione».
Si voleva dunque far passare la strage per un atto di criminalità
comune contro ogni evidenza e in contrasto con il giudizio
espresso da partiti socialista e comunista al governo,
che avevano denunciato come mandanti agrari e mafiosi
e chiamato in causa gli ambienti politici della destra siciliana.
Era anche questo un segnale del logoramento dei rapporti tra
i partiti antifascisti e annunciava la svolta politica che si
sarebbe realizzata con l’estromissione delle sinistre dal
governo. L’evolversi della situazione nazionale non poteva non
avere ripercussioni in Sicilia.
La strage di Portella della Ginestra segnava il culmine dell’offensiva reazionaria, ma non la sua
fine. Nei mesi
successivi vi furono altri omicidi - nel 1947, tra gli altri, vennero uccisi Accursio
Miraglia, Angelo Macchiarella, Carmelo Silva e Nicola Azoti, - e l’incendio delle sedi di
numerose leghe contadine: a Monreale, Carini,
Cinisi, Terrasini, Borgetto, Pioppo, Partinico,
San Giuseppe Jato e San Cipirello.
Il blocco sociale che aveva tentato di contrastare l’avanzata del movimento contadino e delle
sinistre, cavalcando l’ondata separatista e trovando temporaneo rifugio nei partiti della destra
liberale, monarchica e qualunquista, si apprestava a convergere sulle posizioni neomoderate
della Democrazia cristiana. Il prezzo di questa operazione fu la costruzione e il rapido
consolidamento di quel sistema politico-mafioso, basato su una rete di complicità e di
connivenze tra criminalità mafiosa e pezzi dello Stato.
La strage di Portella inaugurò la lunga teoria dei misteri di Stato, ben protetti da muri
di gomma, contro i quali erano destinati a infrangersi la ricerca della verità e la sete di giustizia.
E gli ingredienti tipici della strategia della tensione - depistaggi, morti sospette, ricatti - si
ritrovano tutti nel modo in cui vennero gestite le indagini sulla strage e chiuso l’imbarazzante
capitolo del banditismo siciliano.
Nel 1949, sentendosi ormai abbandonato dai
suoi protettori,
Giuliano scrisse una lettera ai
giornali e alla Polizia per rivendicare lo scopo
politico della strage di
Portella:
«Non si poteva
restare indifferenti davanti all’avanzata
diabolica della canea rossa, la quale,
allettando con insostenibili e stolte promesse
i lavoratori, ha sfruttato e si è servita del loro
suffragio per fare della Sicilia un piccolo
congegno da servire al funzionamento della
macchina sovietica».
Il 14 luglio il bandito viene ucciso dal suo luogotenente, Gaspare Pisciotta, il quale fu a sua volta
La cronistoria della strage di Portella della Ginestra è tratta dallo scritto