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   Il 25 Aprile di «una di noi»

- Festa della Liberazione 2009 -

Inaspettatamente arriva. Uno squillo telefonico che precede l’invito a tenere il discorso celebrativo del
25 Aprile a Broni, in Comune. "Sì accetto". La risposta arriva di slancio. Poi i dubbi, il pudore e un po’
di paura nel non sentirsi all’altezza di questo compito. Dare voce ad una memoria, alla scelta
di quegli uomini e di quelle donne, ai sentimenti che allora li hanno animati,
una lezione di vita ancora oggi così vitale.
Poi, davanti agli occhi di quel partigiano, che di lì a poco riceverà il "grazie" dal suo paese,
ogni timore svanisce e si rafforza il senso del proprio dovere quotidiano, a volte faticoso, sempre
controcorrente. Portare avanti una visione spaventosamente minoritaria, tacciata di essere ormai
fuori dal tempo. E da domani si ricomincia. Testimonianza, impegno, ricordo, passione. Quasi
invisibile, ma perseverante come il lavorio della goccia sulla roccia. Una, due e poi ancora,
ancora, ancora……


Discorso celebrativo del 25 Aprile 2009 tenuto da Roberta Migliavacca (ANPI
Voghera
- Portavoce del Coordinamento A.N.P.I. Oltrepo Pavese - Membro del
Direttivo Provinciale ANPI Pavia) presso il Comune di Broni.
Nell’occasione, è stata conferita una Medaglia d’Oro al partigiano,
Presidente della sezione ANPI Broni, Libero Colombi.

 


Ringrazio il Sindaco, l’Amministrazione comunale e l’A.N.P.I. di Broni per avermi rivolto l’invito
a prendere la parola in una data così significativa come è il 25 aprile.
Sono stati coraggiosi, speriamo non avventati… Cercherò di fare del mio meglio, con umiltà.
L’emozione - non posso nasconderlo - è grande e all’emozione si aggiunge un giusto pudore;
in questi ultimi giorni mi sono infatti più volte trovata a chiedermi quale diritto mi consenta di
parlare da questo microfono, quando qui con me e con voi ci sono alcuni diretti protagonisti di
quella lotta di Liberazione che celebriamo.
La risposta non attinge certo a qualche mio particolare merito o facoltà.
È vero che da anni mi occupo di quella che si definisce "strategia della memoria", ma questo non
fa di me nulla di più che un’operaia della conoscenza. Non lo dico per falsa modestia: forse questa
definizione è addirittura un azzardo se rapportata al fatto che uno storico fra i massimi parlasse
di sé come di «un artigiano che ha sempre amato meditare sul proprio
compito quotidiano»
¹.
Era Marc Bloch, il grande medievalista, professore alla Sorbona.
Membro della resistenza francese fu ucciso dai nazisti il 16 giugno 1944.
Basterebbe, con un po’ di buona didattica, tornare a far leggere anche solo qualche pagina della
sua «Apologia della Storia», saggio breve sugli strumenti del mestiere di storico.
Sono certa che sarebbe un’ottima protezione dalle ricostruzioni - fatico a corredarle
dell’aggettivo "storiche"; direi che assomigliano più a propaganda da pensiero unico, e piuttosto
scadente - gridate nei salotti televisivi dai vari Pansa, Galli della Loggia, Bruno Vespa
e via discorrendo…


Ma torniamo alla questione della risposta sulla mia presenza qui nel giorno del 25 aprile.
Alla fine a risolvere la domanda mi hanno aiutata le pagine dedicate alla Lombardia del
"Corriere della Sera" di venerdì 24 aprile.
A dire il vero sarebbe bastata - tanto era eloquente - la foto che illustrava l’articolo di cronaca
a cui mi riferisco e che immortalava il sacrestano di Vigevano mentre, dal sagrato
della parrocchia di San Francesco, accoglieva i fedeli con al braccio una fascia rossa con la
svastica nazista!
Non riuscivo a staccare gli occhi da quella immagine. La criminale esibizione - un reato di cui
saranno certo le autorità ad occuparsi - mi è risultata anche più odiosa in quanto "consumata "
in quella diocesi di Vigevano che postula la causa di beatificazione del tenente degli alpini
Teresio Olivelli, medaglia d’oro della Resistenza al VM, il reduce dalla Russia che, avendo
compreso nella carne sua e dei suoi commilitoni quanto grande fosse stato l’errore di aver
aderito al fascismo e alla falsa mistica della Patria che da esso promanava, l’8 settembre ’43 si
unì alle file della Resistenza nelle Fiamme Verdi e fu tra gli animatori de "il ribelle" l’importante
foglio clandestino dei resistenti cattolici.
Olivelli, morto nel lager di Hersbruck per le percosse di un kapò, nella sua "Preghiera del
Ribelle"
, invocava per il futuro la costruzione di «un’Italia generosa e severa». Amaramente
io oggi vedo un’Italia con troppi tronisti, veline e avventurieri di ogni risma.
E smemorata.
Dunque penso che, a sessantaquattro anni di distanza dal 25 aprile del ’45 si debba lavorare
ancora molto e credo che il compito ora spetti proprio a noi, nati in libertà e democrazia grazie
alle lotte delle donne e degli uomini della Resistenza.


Abbiamo ricevuto un dono grande e dobbiamo impegnarci a meritarlo, custodirlo, inverarlo…
Per farlo è necessario non lasciarsi sedurre dal canto delle sirene: occorre contrastare
con metodo e senza tregua lo stillicidio di messaggi mediante cui da anni si vuole instillare
nell’opinione pubblica italiana la convinzione che l’antifascismo sia "un fenomeno anagrafico
residuale, zavorra di senilità"
- una roba, per intenderci, da vecchi nostalgici del fazzoletto
rosso - "destinata a scomparire con il venir meno della generazione del 1920 e dintorni, cioè
dell’ultima generazione di italiani cui sia toccato in sorte di sperimentare il regime fascista
da adulti e di conoscerlo abbastanza da non volerne più sapere"²!

Guai a pensare che sia così. Il sacrestano-figuro della foto e con lui i maneschi ragazzotti che in
Italia e in altri paesi d’Europa hanno l’ardire di esibire quei simboli nazisti e fascisti che, dopo
Auschwitz, dovrebbero costituire un tabu’ per l’umanità intera, chiamano in causa tutti noi e,
ancor più di quelle vuote teste rasate, ci chiamano in causa i politici in doppiopetto che sono a
capo dei movimenti della destra estrema e che non esitano a mestare nel torbido delle crisi
contemporanee per proporre la solita, tragica ricetta a base di razzismo,
xenofobia, antisemitismo…

Ci chiamano in causa perché non possiamo esimerci dall’indagare le ragioni per cui oggi ancora
questa infezione, questo virus, continui, magari mutando e presentandosi sotto altre forme, ad
attecchire in mezzo a noi, ai nostri ragazzi, troppo spesso nell’indifferenza, nella
sottovalutazione, nell’ignavia della maggioranza silenziosa, che in Italia davvero non diminuisce
mai abbastanza ed è sempre pronta a soggiacere alla tentazione del cieco consenso.
Anche se ci costa fatica e sofferenza, abbiamo il dovere di interrogarci sulle cause.
Dobbiamo farlo proprio da luoghi come questo, da dove si sono levate strazianti grida di dolore,
lo dobbiamo fare con lo sguardo rivolto alle mura del Castello di Cigognola, ancora
rabbrividendo al ricordo della "Confraternita del Pozzo" che vi operava, lo dobbiamo fare perché
sappiamo di quelle orde di calmucchi, i mongoli della Turkestan che, guidati dagli sgherri italiani
di Fiorentini, hanno seminato il terrore in queste colline e in quelle del vicino piacentino.


Ricordiamoci del prezzo altissimo pagato in quei giorni dalle donne.
Le donne che anche qui a Broni furono protagoniste della riscossa contro il fascismo, già
prima dell’8 settembre, con gli scioperi della primavera del ’43 partiti dalle maestranze
della Cementifera.
Fateci caso: coloro i quali insistono nel derubricare la Resistenza a scontro tra opposte fazioni
"equiparabili" e addirittura vorrebbero promuovere l’idea di un esercito partigiano diviso tra
ribelli bianchi - buoni e combattenti rossi - sanguinari e cattivi, non dicono mai una parola sul
contributo - enorme - dato dalle donne alla Lotta di Liberazione.
Non si tratta di dimenticanza: sanno bene quel che fanno.
Perché nel ruolo attivo delle donne - staffette, partigiane combattenti, ma anche semplici
ingranaggi di un quotidiano meccanismo di solidarietà, accoglienza, aiuto, sta una delle chiavi
principali della diversità della lotta partigiana rispetto allo schieramento avversario.
«Non dobbiamo essere come loro»: sono state le donne, il più delle volte, a inculcare
questo principio tra le file dei combattenti.
Perché di certi fatti si può bensì esser forzatamente vittime, ma non autori.
E questa era e rimane la differenza tra la scelta dei partigiani e quella dei fascisti, pur senza
nascondere sotto il tappeto episodi bui e tragici occorsi anche tra le file della Resistenza, che
peraltro, non stanchiamoci di ribadirlo, gli storici seri non hanno mai taciuto, come invece taluni
divulgatori pretenderebbero di far credere.


Ma questo capita perché nel nostro paese la Storia, quella fatta per bene, con tutti i ferri
del mestiere, rimane purtroppo sconosciuta ai più.
Facciamo attenzione: l’uso e l’abuso della Storia nella vita pubblica italiana stanno
condannando i più giovani a vivere - o meglio: a lasciarsi vivere - in un eterno presente, vinti
e avvinti in modelli e format televisivi sempre più scadenti e omologanti.
Il pericolo è serio, in quanto un paese senza memoria è un paese senza storia.
Diceva Pasolini «Noi siamo un paese senza memoria. Il che equivale a dire senza storia. L’Italia rimuove il suo passato prossimo, lo perde nell’oblio dell’etere televisivo, ne tiene
solo i ricordi, i frammenti che potrebbero farle comodo per le sue contorsioni, le sue
conversioni. Ma l’Italia è un paese circolare, gattopardesco, in cui tutto cambia per restare
come è. In cui tutto scorre per non passare davvero. Se l’Italia avesse cura della sua
storia, della sua memoria, si accorgerebbe che i regimi non nascono dal nulla, sono il
portato di veleni antichi, di metastasi invincibili, imparerebbe questo paese speciale nel
vivere alla grande, ma con le pezze al culo, che i suoi vizi sono ciclici, si ripetono incarnati
da uomini diversi ma con lo stesso cinismo, la medesima indifferenza per l’etica,
con l’identica allergia alla coerenza, a una tensione morale³»
.


Anche in questa sempre attuale incapacità collettiva ad essere pienamente cittadini (nel senso
alto che la Rivoluzione Francese ha attribuito a questo termine) trovo una risposta al mio e al
nostro essere qui oggi.
Perché finché non riusciremo ad essere davvero dei cittadini, finché non comprenderemo che
tocca a noi partecipare attivamente, e costruire, e condividere le regole del nostro vivere
insieme, a partire dalle realtà locali fino su ai Palazzi della politica, noi non sapremo far fruttare
in tutta la sua ricchezza e potenzialità quello che è il lascito fondamentale della
lotta di liberazione dal nazifascismo: la Costituzione della Repubblica Italiana.
Abbiamo certo - e non da oggi - ottime ragioni per lagnarci di parecchi dei nostri rappresentanti
politici. Ma il malcontento non deve consegnarci al rischio di ricorrere a qualche uomo della
Provvidenza. Richiamiamo alla mente la favola delle rane che vollero scegliersi un re: lo scelsero
così bene che alla fine quello se le mangiò tutte in un boccone.
Finisce sempre così quando si opta per un uomo solo al comando, ancorché democraticamente
eletto dal popolo.


Esiste un’unica alternativa: rimboccarsi le maniche e fare tutti la nostra parte da cittadini.
Occupiamoci della politica, esercitiamola; senza partecipazione non esiste democrazia,
non c’è libertà.
E la libertà è davvero come l’aria.
Ci accorgiamo di quanto sia necessaria solo quando ci viene a mancare.
Tocca dunque a noi, donne e uomini nati nella libertà conquistata dai padri e dalle madri,
difendere questa nostra Repubblica.
Non è un compito agevole, certo. A cominciare dal fatto che, come recita il primo punto della
Costituzione, la nostra dovrebbe essere una Repubblica fondata sul lavoro.
Non sulla precarietà del lavoro, non sulle morti sul lavoro o per il lavoro, non sulle crisi fatte pagare
sempre a chi vive non di rendita, ma della propria fatica quotidiana, dentro una fabbrica
ma anche in ufficio, o dietro una cattedra, o davanti a un computer.
Diciamolo chiaramente: in questo paese difendere la dignità del lavoro è ancora una
dura battaglia e richiede una tempra non comune.
Venerdì 24 aprile, un’affollatissima Sala Chiamate del porto di Genova ha tributato, con un’omelia
pronunciata da Don Andrea Gallo, l’ultimo saluto a Paride Batini, Console dei camalli.
La libertà la merita chi sa combattere per essa: e Batini lo ha fatto per tutta la vita.
Dopo cinquantatre anni di contributi versati - aveva iniziato a lavorare su quelle banchine a
dieci anni - la sua pensione superava di poco i duemila euro.
Quanto guadagna con una sola comparsata televisiva la più insignificante delle
aspiranti divette di oggidì? O il signor Fabrizio Corona in una delle sue serate da
"ospite speciale" in discoteca?


«Mondo è e mondo sarà», usava ripetere il barone latifondista nei cui campi si trovò
costretto a lavorare da bambino Giuseppe Di Vittorio.
Ma se siamo qui oggi, è perché noi vogliamo un mondo diverso.
Lo stesso mondo che volevano le donne e gli uomini della Resistenza, che nella pluralità delle
appartenenze e delle radici culturali e politiche hanno lottato per costruire e consegnare alle
generazioni future un’Italia generosa e severa.
Come diceva una canzone: vogliamo - per noi, per i nostri figli, per coloro che verranno - un mondo
nuovo, un mondo di giustizia, un mondo di eguaglianza. Di pace. Di libertà
.

Broni, 25 aprile 2009

Roberta Migliavacca - A.N.P.I. - Associazione Nazionale Partigiani d’Italia.

note bibliografiche:
¹ Marc Bloch - Apologia della Storia - Giulio Einaudi Editore, 1950
² Sergio Luzzatto - La crisi dell’antifascismo - Giulio Einaudi Editore, 2004
³ Pier Paolo Pasolini - Scritti Corsari - Garzanti, Milano 1975.