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   L’ANPI Voghera commenta

Abbiamo voluto dedicare questa pagina web alle prese di posizione, ad eventuali polemiche verso fatti ed episodi accaduti in città o nella nostra provincia.
L’obbiettivo è quello di sollecitare dibattiti, evidenziare avvenimenti e notizie, comunicare la nostra posizione sulla vita sociale e culturale nazionale ed iriense.

 

- 16 Giugno 2012 -

Il filo rosso della memoria




C’è un filo rosso che lega assieme 25 aprile, 1° maggio e 2 giugno, le tre feste civili della primavera italiana. Questo filo rosso è il primo comma dell’articolo 1 della Costituzione: “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”.

È democratica, e questo lo ricordiamo ogni 25 aprile, il giorno della Liberazione. Democratica significa dunque che l’Italia è antifascista. Il fascismo non è l’unico tipo di dittatura che gli esseri umani sono stati capaci di costruire; ma è quella che abbiamo vissuto in Italia per vent’anni, quella che aboliva le libertà civili e politiche, che chiudeva in carcere Antonio Gramsci e che mandava i sicari a far fuori Giacomo Matteotti. E se è quella che abbiamo vissuto, è naturale, oltre che giusto, che la sua archiviazione passi per una Costituzione intrinsecamente, dichiaratamente, convintamente antifascista. Negare il carattere antifascista della Repubblica italiana e della Costituzione su cui si regge, come purtroppo oggi vari e non sempre innocenti buonismi auspicano, significa negare la nostra storia, tanto l’abiezione in cui ci ha precipitato il ventennio mussoliniano quanto il riscatto cui ci ha elevato la Resistenza. Credo non si debba mai dimenticare questo. E credo che l’antifascismo dovrebbe essere un tratto genetico delle istituzioni italiane. Purtroppo qui a Voghera non è così: la triste conferma, della memoria mutilata delle (e dalle) istituzioni, è posizionata sul lato del Castello, incisa su una targa pelosamente pudica e storicamente purgata dall’olio di ricino della disonestà intellettuale.

L’Italia è fondata sul lavoro, e questo è invece ricordato ogni 1° maggio, la Festa del Lavoro. Se avete la pazienza di andare a leggere i dibattiti in Assemblea Costituente (sono bellissimi e li potete trovare tutti on line), potrete vedere che sull’articolo 1, come sugli altri articoli, la discussione è stata accesa sempre e banale mai. Sull’articolo 1 sono state proposte e approvate diverse formulazioni, e molte formulazioni alternative rigettate. Alla fine, ebbe la meglio la proposta di Amintore Fanfani, il quale così argomentò a suo sostegno: “Dicendo che la Repubblica è fondata sul lavoro, si esclude che essa possa fondarsi sul privilegio, sulla nobiltà ereditaria, sulla fatica altrui e si afferma invece che essa si fonda sul dovere, che è anche diritto ad un tempo per ogni uomo, di trovare nel suo sforzo libero di essere e di contribuire al bene della comunità nazionale”. Parlare di lavoro significava per i Padri costituenti farla finita con una società classista. Anche questo va ricordato oggi: la crisi del lavoro diventa per la Repubblica italiana una crisi di cittadinanza e un attacco ai diritti di eguale cittadinanza.

Infine, l’Italia è una Repubblica. Lo festeggiamo oggi, 2 giugno; e lo festeggiamo il 2 giugno da pochi anni, dal 2001, su decisivo impulso dell’allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. Festeggiamo il fatto che il 2 giugno 1946 il popolo italiano decise a maggioranza che la forma di Stato non poteva più essere la Monarchia, ma doveva essere la Repubblica. Una maggioranza di 12.000.000 e rotti di cittadini (e, per la prima volta, cittadine, è bene ricordarlo) che decise di confinare nell’armadio della storia una istituzione monarchica largamente compromessa col regime fascista. Fu una vittoria numericamente importante, di circa di 2.000.000 di voti, che certa pubblicistica ha spesso cercato di sminuire adombrando brogli o complotti, peraltro mai dimostrati. Una vittoria da cui il Paese ripartì per ricostruire se stesso, civilmente, moralmente ed economicamente; una vittoria che in un qualche senso anticipa la stesura dell’articolo 3 della Costituzione, primo comma: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.

“L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro” è dunque oggi la sintesi mirabile di un mutamento radicale, la cui Epifania è rinnovata ogni anno nelle tre liturgie civili del 25 aprile, 1° maggio e 2 giugno. Quelle che, per inciso, il Governo Monti voleva scioccamente accorpare alle domeniche più vicine, evidentemente sottovalutando, nel proprio delirio economicista, che la democrazia vive certo di PIL, di conti in ordine e di crescita (chi potrebbe negarlo?), ma anche di simboli e riti collettivi. O forse, più prosaicamente, in questa scelta, poi fortunatamente ritirata, agiva (speriamo almeno incosapevolmente) il virus iniettato da questi ultimi anni di tentativi di “eversione democratica” della nostra carta costituzionale. Quell’eversione che dimentica il secondo comma dell’articolo 1 della Costituzione, secondo cui la sovranità appartiene sì al popolo, che però la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione. L’idea insomma che il patto fondamentale stretto nel 1948 da una classe politica autorevole, vivificato dall’operare della Corte costituzionale, potesse essere modificato da qualche frettoloso tratto di penna da una classe politica in crisi non di luoghi da occupare, ma di credibilità da poter spendere. Così si sta affermando l’idea che la Costituzione sia un menù à la carte, dove sostituire una portata con l’altra a seconda delle convenienze o delle mode del momento, incuranti del fatto che certe scelte siano state molto meditate prima di essere prese. E questa scarsa meditazione sembra animare la riforma (o controriforma) costituzionale in discussione in questi giorni, che punta a seppellire la centralità parlamentare a favore della dittatura governativa.

Per la Costituzione i tempi dell’Assedio (per usare il titolo di un bel libro del costituzionalista Michele Ainis) non sono dunque finiti. Come Libertà e giustizia, a livello nazionale e a livello di circoli, compreso il mio, di Pavia, stiamo cercando di tenere desta l’attenzione. Stiamo per esempio conducendo, diffondendo l’appello di dodici giuristi, una campagna d’informazione e una raccolta firme, non sappiamo quanto efficaci, contro la controriforma che ho menzionato prima. Non è facile. I tempi sono quelli che sono e la politica, anziché fare sbarramento non contro i ritocchi ma contro le distorsioni della Carta, sembra più che altro preoccupata  di agevolarle. Per fortuna, vien da commentare con una punta di amarezza, che c’è l’articolo 139 che stabilisce che “La forma Repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale”. È stato detto che “La Carta Costituzionale è lo strumento di garanzia che si scrive da sobri e da usare per quando si è ubriachi”. Speriamo di non arrivare a essere tanto ubriachi da non saperla neppure più usare.

 

Intervento, durante la manifestazione "Festa e Memoria" - Resistenza, Costituzione, Democrazia (Voghera 02 Giugno 2012), di

Corrado Del Bò - Libertà e giustizia, Circolo di Pavia