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   Comandante Maino: La vita di una
   formazione Partigiana nell’Oltrepo pavese


Estratti dalla testimonianza di Luchino dal Verme nell’ambito
delle lezioni tenute nella sala dei Congressi della Provincia di Milano
febbraio – aprile 1965 nel ventennale della Resistenza
( raccolta pubblicata dalle edizioni Labor Milano 1965 )


"( … ) Ebbi la responsabilità di comando di una formazione Garibaldi che operò
in Oltrepo pavese e il primo argomento di cui debbo e voglio parlare sono gli uomini
con i quali ho condiviso rischi e responsabilità in uno spirito di solidarietà
e reciproca fiducia che è certamente il ricordo più vero e più importante che mi sia rimasto.
Operai, impiegati, contadini, giornalisti, medici, tanti medici.
Ci fu una percentuale che scelse le formazioni contro le disposizioni delle autorità, solo perché
poteva sembrare più facile scegliere la via della montagna?
Si, ho conosciuto anche questo, ma non dimentichiamo che sfidavano un bando:
non dimentichiamo che per la repubblica di Salò, da quel momento, diventavano banditi.
Vedete che volutamente vi parlo dei meno preparati, dei meno eroici.
Vorrei pregarvi di pensare al nostro stato d’animo tutte le volte che un uomo si presentava da
noi. Sa quello che fa? Possiamo fidarci di lui?Dobbiamo credergli?
Abbiamo fatto anche errori di valutazione e li abbiamo pagati cari.
Quando dico noi, intendo il comandante e il commissario.
Nel mio caso il commissario era un comunista. Io non lo ero e non lo sono.
Ebbene, sappiate che mai, fra me e lui, ci fu contrasto di idee.
Dubbi, perplessità, si: tremende.
È vero che il minimo comune denominatore era splendido, era la libertà.
Io per la sua di comunista, lui per la mia di cattolico. ( … )

Non dimentichiamo che la divisione "Gramsci" di cui ebbi la responsabilità di comando,
era di promozione comunista.
Ebbene, non ho mai saputo quanti fossero comunisti e quanti no, ma so quanti morirono per tutti noi:
per la libertà di ciascuno di noi.

Questo ci impone di sapere che cosa ne abbiamo fatto della nostra libertà
o per lo meno che cosa intendiamo farne.
Non vi darò dati, non citerò nomi, ma vorrei darvi una misura dei problemi,
più grandi di noi, che dovevamo continuamente risolvere.
Addestramento degli uomini: di provenienza la più differente, alle volte con nessuna preparazione militare od allenamento fisico, spesso insofferenti di un vero e proprio inquadramento e della necessaria intransigente disciplina.
Pensate che una delle canzoni che più spesso riecheggiò per quelle vallate cominciava con le parole:
"Non c’è tenente, né capitano".
Armamento: disastroso all’inizio. ( … ) Scelta degli obiettivi militari e quindi rete di informazioni
il più possibile attendibile. ( … )
L’approvvigionamento dei viveri: a un certo momento divenne grossa preoccupazione,
anche se mai fu per la nostra zona problema assillante come nell’Ossola,
in Val Camonica, nella Val d’Aveto.
E qui si dovette soprattutto evitare di commettere troppo gravi ingiustizie nei riguardi delle popolazioni.
Azione di disgregamento nelle forze nemiche, aiutando naturalmente quanti più possibile a trasferirsi sulle montagne, con armi e bagagli.
Voglio qui ricordare un piccolo Reparto Cecoslovacco, posto dai tedeschi a presidiare
un ponte sul Po, che passò al completo con noi con la sua dotazione di mitragliere.
Magnifica gente, che si batté al nostro fianco con un coraggio ed uno slancio commoventi.
Ed è molto più difficile battersi in un paese straniero, lontani dalla propria terra:
molto più difficile.

Ma il compito militare vero e proprio delle nostre formazioni fu di impegnare le forze nemiche nelle loro retrovie, attaccandole sulle vie di grande comunicazione stradale e sabotando
le ferrovie. Le imboscate sulla Via Emilia ai convogli militari si succedettero con una frequenza
tale che il nemico, dopo gravi perdite, specialmente in materiali, fu costretto a viaggiare
in convogli scortati, con grave perdita di tempo; le interruzioni ferroviarie lo obbligarono
per lunghi periodi a sospendere i convogli notturni e a presidiare le linee,
e i rastrellamenti di truppe tedesche e fasciste si susseguirono, nel tentativo di ricacciarci
sempre più lontani dalla grandi linee di comunicazione e dalle loro retrovie.( … )
L’efficacia dell’azione di disturbo condotta con continua variazione di temi e di posizioni
mi sembra facilmente dimostrata dalle pesanti decisioni del comando tedesco che,
sottraendo importanti contingenti al fronte, organizzò a fine novembre 1944 un rastrellamento
che investì tutto l’Oltrepo allora sotto il nostro controllo.
Due divisioni tedesche, reparti della "Littorio" e della "Monterosa" e delle varie polizie fasciste
risalirono le vallate su molte direttrici e terrorizzarono le popolazioni, commettendo atti
di vera barbarie, di cui la montagna porta ancora oggi il segno
e che gli uomini civili non possono e non debbono dimenticare.
L’enorme differenza di armamento e di forze ci costrinse sulle più alte pendici
della Val Staffora e della Val Borbera in una operazione che, se da una parte impegnò a lungo grosse forze
nemiche, ci costò perdite molto dolorose di uomini e di materiale.
Nel giro di un mese, forti della nostra decisione ed esperienza, ma soprattutto
della stima e dell’appoggio della magnifica popolazione locale che si era vista bruciare case
e cascinali, rompevamo l’accerchiamento e riprendevamo l’azione nelle località più basse:
così per 87 giorni, quanti furono i giorni di quel rastrellamento.

 

Con formazioni molto più agili, quadri di giovanissimi, che nelle prove si erano venuti formando,
vita durissima, sempre e solo per boschi, cime e vallate, filtrando attraverso le linee nemiche,
riprendemmo l’attacco alle spalle con tanta efficacia che,
alla fine del febbraio 1945, il triangolo Stradella – Voghera – Penice era completamente controllato.

 

( … ) I lanci di armi, munizioni, uniformi andarono facendosi sempre più frequenti e regolari,
portandoci, più ancora che l’aiuto materiale, la gioia e il conforto di avere conquistato
la fiducia degli Alleati, che avevano sempre incoraggiato le formazioni
ma, più che altro a parole. ( … )

Nei giorni immediatamente successivi alla Liberazione, ci toccò ancora il compito
di trattare la resa di formazioni militari tedesche asserragliate in Milano e nelle immediate
vicinanze, ma ormai erano dei vinti e non mi piace parlarne.
Vorrei solo potervi comunicare la profonda emozione provata quando il comandante
di una divisione tedesca, che aveva partecipato al rastrellamento dell’inverno,
in mia presenza ordinò a trenta suoi ufficiali di deporre le armi.
Il tonfo di trenta postole sul tavolo di un loro comando non potrò mai dimenticarlo,
perché disarmò anche me
.
È su questo pensiero di disarmo che voglio chiudere queste pagine di guerra,
perchè forse è l’unico modo per onorare chi per essa è caduto".