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Conobbi Tina nel 1975, a Venezia. Cercava collaboratori per la redazione regionale. Lei, che da un retroterra intensamente cattolico era arrivata a essere una comunista convinta ma insofferente alle burocrazie del partito, cercò nelle sezioni del Pci di Venezia dei giovani da inserire in redazione. Voleva evitare che le imponessero qualche piccolo funzionario di federazione. Ovviamente all’inizio fui intimorito, non solo dall’essere arrivato senza rendermene conto in un giornale così importante, ma anche perché avevo di fronte questa compagna (allora si diceva e nessuno se ne vergognava) che mi sembrò subito forte e autorevole. Ma sentii che di lei potevo fidarmi, nonostante le sfuriate pluriquotidiane, gli articoli appallottolati e gettati nel cestino. C’erano ancora le macchine per scrivere e il primo fax, un Infotec arancione che arrivò qualche tempo dopo, era grande come una credenza.
Per molto tempo non seppi davvero chi fosse. Da buona montanara, Tina non parlava di sé. Neppure del «suo» Vajont. E anche di tutto il resto seppi molto tempo dopo. Del fatto che a 17 anni cominciò a fare la staffetta partigiana nel battaglione Manara: Joe il suo nome di battaglia. Bill era invece il nome da partigiano del fratello Toni, medaglia d’argento al valore militare, ucciso dai tedeschi il 26 aprile 1945. Remo era l’altro fratello, alpino, una delle centomila gavette di ghiaccio, scomparso da qualche parte in Russia.
Nonostante molto tempo passato con Tina, le cene nella sua casa alla Giudecca a Venezia, le discussioni a volte molto animate, con lei che bruciava una sigaretta dietro l’altra, la sua storia precedente l’ho scoperta soltanto leggendo molti anni dopo quel libro struggente che è La casa sulla Marteniga, il racconto di come è nata e si è formata la sua ribellione. La scuola interrotta prima di finire la quinta elementare, mandata a servire a Milano a tredici anni perché così si doveva in quegli anni. «Imparai quella volta, in quel cortile, una cosa nuova: l’emarginazione dei poveri. La sentii nella pelle come una frustata. Ebbi netta la sensazione d’essere considerata diversa dalle mie compagne che abitavano in piazza», racconta. E nonostante ciò, quella necessità indomita, infinita di rivolta contro tutte le disuguaglianze e le ingiustizie che segnerà la sua vita intera. Nel caso di Tina non si tratta di parole vuote, ma esperienza Sulla pelle viva, come intitolerà il suo libro sul Vajont. Il 13 ottobre 1963, con la gola ancora serrata per quello che era appena successo a Longarone, Erto, Casso, scrive su l’Unità delle parole che la definiscono mirabilmente: «Non volevo diventare famosa per un fatto così tragico quando scrivevo contro la Sade. Volevo semplicemente impedire che questo disastro colpisse i montanari della terra dove sono nata, dove ho fatto la guerra partigiana, dove ho vissuto tutta la mia vita. E ora non riesco neanche a esprimere la mia collera, il mio furore per non esserci riuscita».
L’articolo è stato pubblicato sul sito online "eddyburg.it" in data 06 Ottobre 2013
È stato un genocidio. Lo gridano i pochi sopravvissuti, resi folli dal terrore della valanga d’acqua e dalla disperazione di trovarsi soli e impotenti a superare una realtà tragica, fatta oramai di nulla, o meglio fatta di sassi e melma amalgamati dal sangue dei loro cari. Una realtà che ha sconvolto all’improvviso la fisionomia di interi paesi, ma che era purtroppo. prevedibile da anni, da quando ancora all’inizio dei lavori del grande invaso idroelettrico del Vajont i tecnici sapevano di costruire su terreno argilloso e franabile, che perciò potevano portare alla catastrofe.
Genocidio quindi, da gridare ad alta voce a tutti, affinché il grido scuota le coscienze del popolo e il popolo, la cui pelle non conta mai niente di fronte ai dividendi dei padroni del vapore, spazzi via alfine con un’ondata di collera e di sdegno chi gioca impunemente, a sangue freddo, con la vita di migliaia di creature umane allo scopo di accrescere i propri profitti e il proprio potere. Che qualcuno, se ne ha il coraggio, mi smentisca in questo momento. Io assumo la responsabilità di quanto dico; i colpevoli si assumano la responsabilità di quanto hanno fatto. E la giustizia giudichi.
Affermo che ci sono a responsabilità morali e materiali. Ho seguito la vicenda dell’invaso del Vajont con passione non solo di giornalista, ma di figlia di questo popolo contadino e montanaro che si ribella alla retorica delle «virtù tradizionali», che mal nasconde il cinismo dello sfruttamento più spietato. Con questo cuore ho seguito tutte le vicissitudini, le resistenze, le paure dei montanari di Erto contro la «Sade», non per impedirle di costruire il grande bacino idroelettrico del Vajont, ma per impedirle di compiere un delitto. L’intuito e l’esperienza di quei montanari, confortati per altro da pareri di grandi geologi, indicavano la Valle del Vajont non adatta
a reggere la pressione di di 160 milioni di metri-cubi d’acqua.
La realtà ha dimostrato la ragione dei montanari, non quella dei tecnici della «Sade». La società elettrica sapeva che le pareti dell’invaso erano formate dal terreno di una enorme frana caduta centinaia di anni fa, sulla quale è sorto in seguito il paese di erto. Sapeva che il monte Toc era esso stesso parte di quella frana e che era prevedibile che l’acqua immessa nel bacino dovesse erodere piano piano il sottosuolo e provocare disastri. Quattro anni fa, quando è stata sperimentata la resistenza del bacino, grosse fenditure avevano segnato le case di San Martino e delle altre frazioni di Erto alle pendici del Toc. Esse, piano piano, si estesero a ridosso del monte, facendo nascere la paura tra gli abitanti di Erto. Costoro si appellarono inutilmente ad ogni autorità possibile dando veste giuridica ad un largo comitato unitario che lottò per anni nel tentativo di opporsi alla costruzione. (…).
Io mi feci portavoce di quei montanari e scrissi un articolo per l’Unità, indicando quello che sarebbe potuto accadere e che oggi è accaduto. La pubblica autorità mi accusò di propagare notizie false atte a turbare l’ordine pubblico. Venni processata a Milano assieme al direttore de L’Unità. (...). lo e il compagno onorevole Bettiol, che rappresentavamo il Partito Comunista, fummo soli e sempre gli unici a sostenere attivamente le ragioni dei montanari. Essi mi difesero energicamente davanti ai giudici del Tribunale di Milano e dimostrarono, con prove e testimonianze, non solo che io avevo scritto la verità, ma che tutto il paese di Erto si trovava in pericolo assieme ai paesi del Longaronese. I giudici mi assolsero, ma le autorità che dovevano tenere conto dei fatti e impedire un possibile massacro, diedero invece via alla «Sade» per i suoi esperimenti criminosi. Fatti, oltretutto, con i miliardi del popolo italiano. (...) Quelle stesse autorità di governo che gestendo oggi gli impianti idroelettrici, e sapendo che da circa un mese la situazione del Vajont peggiorava, non hanno provveduto a scongiurare l’immane sciagura che si è abbattuta stanotte sul Bellunese (…). (11 ottobre 1963)
L’articolo è stato pubblicato sul sito online "eddyburg.it" in data 06 Ottobre 2013