Menu:

<
galleria fotografica

GALLERIA
FOTOGRAFICA


       



   La mia opposizione al fascismo - Aldo Capitini -


estratto da "IL PONTE", anno XVI, N.1, Gennaio 1960


Non è facile elevarsi su quel patriottismo scolastico che ci coglie proprio nel momento, dai dieci
ai quindici anni, in cui cerchiamo un impiego esaltante delle nostre energie, una tensione attiva
e appoggiata a miti ed eroi.
Quaranta anni successivi di esperienza in mezzo ad una storia movimentatissima ci hanno ben
insegnato due cose: che la devozione alla patria deve essere messa in rapporto e mediata
con ideali piú alti e universali; che la nazione è una vera società solo in quanto risolve
i problemi delle moltitudini lavoratrici nei diritti e nei doveri, nel potere, nella cultura,
in tutte le libertà concretamente e responsabilmente utilizzabili
.
Quella "patria" che la scuola ci insegnò, che era del Foscolo e del Carducci, e diventava
del D’Annunzio e del Marinetti, non poteva essere il centro di tutti gli interessi; e perciò
potei essere nazionalista tra i dieci e i quindici anni, ma non potei restarlo quando vidi la guerra
in rapporto, meno con la nazione, e piú con l’umanità sofferente e divisa;
quando dalla letteratura vociana e di avaguardia salii (da autodidatta e piú tardi che i coetanei)
alla piú strenua, vigorosa, e anche filologica classicità, vista nei testi latini, greci e biblici,
come valori originali; quando portai la riflessione politica, precoce ma intorbidata dall’attivismo
nazionalistico, ad apprezzare i diritti della libertà e l’apertura al socialismo
come cose fondamentali, insopprimibili per qualsiasi motivo.

Umanitario e moralista, tutto preso dalla ricostruzione della mia cultura (eseguita tardi ma
con consapevolezza) e anche dal dolore fisico, il dopoguerra 1918-22 mi trovò del tutto
estraneo al fascismo, anche se avevo coetanei che vi erano attivissimi: non sentii affatto
l’impulso ad accompagnarmi con loro.
Anzi, mi permettevo nella mia indipendenza, di leggere la "Rivoluzione liberale", di offrire lieto
il mio letto ad un assessore socialista cercato dagli squadristi, e la mattina della
"Marcia su Roma" sentii bene che non dovevo andarci, perché era contro la libertà.

Certo, per chi è stato, purtroppo (e purtroppo dura ancora), educato a quel tal patriottismo
scolastico, per chi non ha potuto nell’adolescenza non assorbire del dannunzianesimo e del
marinettismo, qualche volta il fascismo poteva sembrare un qualche cosa di energico,
di impegnato a far qualche cosa; e comprendo perciò le esitazioni e le cadute di tanti miei
coetanei, che hanno come me press’a poco gli anni del secolo.

Se io fui preservato e salvato per opera di quell’evangelismo umanitario-moralistico e
indipendente, per cui non ero diventato né cattolico (pur essendo teista) né fascista,
e preferii rinunciare alla politica attiva, a cui pur da ragazzo tendevo, scegliendo un lavoro di
studio, di poesia, di filosofia, di ricerca religiosa; tanti altri, anche per il fatto di essere stati
in guerra (io ero stato escluso perché riformato), lungo il binario del patriottismo,
del combattentismo, dello squadrismo, videro nel fascismo la realizzazione di tutto.

Queste mie parole sono perciò un invito a diffidare del patriottismo scolastico,
che può portare a tanto e a giustificare tanti delitti, e un proposito di lavorare per
un’educazione ben diversa.
Questa è dunque la prima esperienza che ho vissuto in pieno: ho potuto contrastare
al fascismo
fin dal principio perché mi ero venuto liberando (se non perfettamente) dal
patriottismo scolastico; esso fu uno degli elementi principalmente responsabili
dell’adesione di tanti al fascismo.

Ed ora vengo alla seconda esperienza fondamentale.
Si capisce che mentre il fascismo si svolgeva, quasi insensibile com’ero alla
soddisfazione"patriottica", mi trovavo contrario alla politica estera ed interna.
Per l’estero io ero press’a poco un federalista, e mi pareva che un’unione dell’Italia,
Francia, Germania
(circa centocinquanta milioni di persone) avrebbe costituito una forza viva
e civile, anche se l’Inghilterra fosse voluta rimanere per suo conto: ma ci voleva uno
spirito comune, che, invece, il nazionalismo fece rovinare.
Ebbi sempre un certo rispetto per la Società delle Nazioni; e mi pareva che l’Italia avesse
avuto molto col Trattato di Versailles, malgrado le strida dei nazionalisti.
Approvavo il lavoro di Amendola e degli altri per un patto con gli Jugoslavi, che ci avrebbe
risparmiato tante tragedie e tante vergogne.

Per la politica interna la Milizia in mano a Mussolini, il delitto Matteotti, la dittatura e il fastidio,
a me lettore e raccoglitore di vari giornali, che dava la lettura di giornali eguali, l’avversione
che sentivo per il saccheggio e la distruzione e l’abolizione di tutto ciò che era stata la vita
politica di una volta, le Camere del lavoro, le varie sedi dei partiti, le logge massoniche;
mi tenevano staccato dal fascismo.

Sapevo degli arresti, delle persecuzioni.
Dov’era piú quel bel fermento di idee, quella vivacità di spirito di riforme che avevo vissuto
dal ’18 al ’24?
Quanti libri liberi, riviste ("Conscientia" per es. che conservavo come preziosa), erano finiti!.
L’Italia che avrebbe dovuto riformarsi in tutto, era ora affidata ad un
governo reazionario e militarista!
E io ricordavo il mio entusiasmo per le amministrazioni socialiste: come seguivo quella
di Milano, quella di Perugia, mia città!

Non ero iscritto a nessun partito, non partecipavo nemmeno, preso da altro, alla dialettica
politica, ma le amministrazioni socialiste mi parevano una cosa preziosa, con quegli uomini
presi da un ideale, umili di condizione, e " diversi ", lì impegnati ad amministrare per tutti.

Sicché ero contrario al regime, e la seconda esperienza fondamentale lo confermò;: fu la
Conciliazione del febbraio del ’29.

Non ero piú cattolico dall’età di tredici anni, ma ero tornato ad un sentimento religioso sul finire
della guerra, e lo studio successivo, anche filosofico e storico sulle origini del cristianesimo,
di là dalle leggende e dai dogmi mi aveva concretato un teismo di tipo morale.

Guardando il fascismo, vedevo che lo avevano sostenuto in modo decisivo due forze:
la monarchia che aveva portato con sé (piú o meno) l’esercito e la burocrazia;
l’alta cultura (quella parte vittima del patriottismo scolastico) che aveva portato con sé
molto della scuola.
C’era una terza forza: la Chiesa di Roma.
Se essa avesse voluto, avrebbe fatto cadere, dispiegando una ferma non collaborazione,
il fascismo in una settimana.
Invece aveva dato aiuti continui.
Si venne alla Conciliazione tra il governo fascista e il Vaticano.

La religione tradizionale istituzionale cattolica, che aveva educato gl’italiani per secoli,
non li aveva affatto preparati a capire, dal ’19 al’24, quanto male fosse nel fascismo;
ed ora si alleava in un modo profondo, visibile, perfino con frasi grottesche, con prestazione di
favori disgustose, con reciproci omaggi di potenti, che deridevano alla " scuola liberale " e ai
"conati socialisti", come cose oramai vinte!
Se c’è una cosa che noi dobbiamo al periodo fascista, è di aver chiarito per sempre che la
religione è una cosa diversa dall’istituzione romana.

Perché noi abbiamo avuto da fanciulli un certo imbevimento di idee e di riti cattolici, che sono
rimasti lì, nel fondo nostro; ed anche se si è studiato, e si sanno bene le ragioni storiche,
filosofiche, sociali, anche religiose, per cui non si può essere cattolici, tuttavia ascoltando
suonare le campane, vedendo l’edificio chiesa, incontrando il sacerdote, uno potrebbe
sempre sentire un certo fascino.

Ebbene, se si pensa che quelle campane, quell’edificio, quell’uomo possono significare una
cerimonia, un’espressione di adesione al fascismo, basta questo per insegnare che bisogna
controllare le proprie emozioni, non farsi prendere da quei fatti che sono " esteriori "
rispetto alla doverosità e purezza della coscienza.

La Chiesa romana credette di ottenere cose positive nel sostenere il fascismo,
realmente le ottenne.
Ma per me quello fu un insegnamento intimo che vale piú di ogni altra cosa.
Non aver visto il male che c’era nel fascismo, non aver capito a quale tragedia conduceva
l’Italia e l’Europa, aver ottenuto da un potere brigantesco sorto uccidendo la libertà,
la giustizia, il controllo civico, la correttezza internazionale; non sono errori che ad individui
si possono perdonare, come si deve perdonare tutto, ma sono segni precisi di inadeguatezza
di un’istituzione, ancora una volta alleata di tiranni.

Fu lì, su questa esperienza che l’opposizione al fascismo si fece piú profonda, e divenne in me
religiosa; sia nel senso che cercai piú radicale forza per l’opposizione negli spiriti religiosi-puri,
in Cristo, Buddha, S. Francesco, Gandhi, di là dall’istituzionalismo tradizionale che tradiva
quell’autenticità; sia nel senso che mi apparve chiarissimo che la liberazione vera dal fascismo
stesse in una riforma religiosa, riprendendo e portando al culmine i tentativi che erano stati
spenti dall’autoritarismo ecclesiastico congiunto con l’indifferenza generale italiana per tali cose.

Vidi chiaro che tutto era collegato nel negativo, e tutto poteva essere collegato nel positivo.
Mi approfondii nella nonviolenza.
Imparai il valore della non collaborazione (anzi lo acquistai pagandolo, perché rifiutai
l’iscrizione al partito, e persi il posto che avevo); feci il sogno che gli italiani si liberassero
dal fascismo non collaborando, senza odio e strage dei fascisti, secondo il metodo di Gandhi,
rivoluzione di sacrificio che li avrebbe purificati di tante scorie, e li avrebbe rinnovati, resi degni
d’essere, così sì, tra i primi popoli nel nuovo orizzonte del secolo ventesimo.

Divenni vegetariano, perché vedevo che Mussolini portava gl’italiani alla guerra, e pensai
che se si imparava a non uccidere nemmeno gli animali, si sarebbe sentita maggiore avversione nell’uccidere gli uomini.

Nel lavoro di suscitamento e collegamento antifascista, svolto da me dal 1932 al 1942,
sta la terza esperienza fondamentale: il ritrovamento del popolo e la saldatura con lui
per la lotta contro il fascismo.
Figlio di persone del popolo, vissuto in povertà e in disagi, con parenti tutti operai o contadini,
i miei studi (vincendo un posto gratuito universitario nella Scuola normale superiore di Pisa)
ed anche i primi amici non mi avevano veramente messo a contatto con la classe lavoratrice
nella sua qualità sociale e politica.

Anche se da ragazzo ascoltavo con commozione le musiche di campagnna che il primo maggio
sonavano di lontano l’Inno dei lavoratori, di là dal velo della pioggia primaverile,
non conoscevo bene il socialismo.
Avevo visto dal mio libraio le edizione delle opere di Marx e di Engels
annerite dagl’incendi devastatori dei fascisti milanesi alla redazione dell’"Avanti!", ma, preso
da altro lavoro, non le avevo studiate.

Accertai veramente la profondità e l’ampiezza del mondo socialista nel periodo fascista,
quando le possibilità di trovare documentazioni e libri (lo sappiano i giovani di ora, che se
vogliono possono andare da un libraio e acquistare ciò che cercano) erano di tanto diminuite,
ma c’era, insieme, il modo di ritrovare i vecchi socialisti e comunisti, che erano rimasti saldi nella
loro fede, veramente "fede" "sostanza di cose sperate ed argomento delle non parventi",
malgrado le botte, gli sfregi, la povertà, le prigioni, le derisioni degl’ideali e dei loro
rappresentanti uccisi ("con Matteotti faremo i salsicciotti" ) e sebbene vedessero che le persone
"dotte" erano per Mussolini e il regime.

Ritrovare queste persone, unirsi con loro di là dalle differenze su un punto o l’altro dell’ideologia,
festeggiare insieme il primo maggio magari in una soffitta o in un magazzino di legname,
andare insieme in campagna una domenica (che per il popolo è sempre qualche cosa di bello),
e talvolta anche in prigione: nella lotta contro il fascismo si formò questa unione, che non fu
soltanto di persone e di aiuto reciproco, ma fu studio, approfondimento, constatazione
degl’interessi comuni dei lavoratori e degl’intellettuali contro i padroni del denaro e del potere:
si apriva cosi l’orizzonte del mondo, l’incontro di Occidente e Oriente in nome di una
civiltà nuova, non piú individualistica né totalitaria.

Questo io debbo al fascismo, ma in quanto ebbi, direi la Grazia, o interni scrupoli o ideali
che mi portarono all’opposizione.
Opponendomi al fascismo, non per cose di superficie o di persone o di barzellette, ma pensando
seriamente nelle sue ragioni, nella sua sostanza, nel suo esperimento e impegno,
non solo me ne purificavo completamente per ciò che potesse essercene in me, ma accertavo le
direzioni di un lavoro positivo e di una persuasione interiore che dovevo continuare
a svolgere anche dopo.

Il fascismo aveva unito in un insieme tutto ciò contro cui dovevo lottare per profonda
convinzione, e non per caso, per un un male che mi avesse fatto, per un’avversione o invidia
verso persone, o perché avessi trovato in casa o presso maestri autorevoli un
impulso antifascista.
Nulla di questo ebbi, ed anche perciò ad un’attiva opposizione con propaganda non passai
che lentamente e dopo circa un decennio.

Posso assicurare i giovani di oggi che il mio rifiuto fu dopo aver sentito le premesse del fascismo
proprio nell’animo adolescente, e dopo averle consumate; sicché i fascisti mi apparvero
dei ritardatari.
Ero arrivato al punto in cui non potevo accettare:

Perciò il fascismo, nel problema dell’Italia di educarsi a popolo onesto, libero, competente,
corretto, collaborante, mi parve un potenziamento del peggio e del fondo della nostra
storia infelice, una malattia latente nell’organismo e venuta fuori, l’ostacolo che doveva,
per il bene comune, essere rimosso, non in un modo semplicemente materiale,
ma prendendo precisa e attiva coscienza delle ragioni per cui era sbagliato,
e trasformando in questo lavoro sé e persuadendo gli altri italiani.


  Aldo Capitini

     

Torna  ad "Aldo Capitini - biografia e pensiero -"

Torna ad "Aldo Capitini e l’utopia dei diritti al potere"