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Visita il blog dei ragazzi del collettivo studentesco dell'ANPI di Voghera

Collettivo Jacopo Dentici

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-Blog-






   Eva Colombo "Susi"

«Nel periodo che eravamo in Ossola, mio padre aveva un impiego stabile e non ci
mancava il mangiare. Ma quando venimmo a Milano abbiamo passato del periodi
veramente duri. Mangiare poco, male e scarpe rotte.
Lui ci aveva organizzato e ognuno di noi tre aveva un compito specifico cui badare.
Nell’Ossola, oltre ai fornelli a petrolio, avevamo la stufa a legna su cui si cucinava.
Mio fratello maggiore aveva l’incombenza di procurare la legna, andava nel bosco a
raccattarla, a tagliarla, l’accatastava, preparava il fuoco e faceva la spesa. Io dovevo
preparare la minestra e lavare i piatti. Mio fratello minore era l’unico quasi dispensato,
perché essendo il più piccolo era anche un po’ il cocco di papà. Ma io e mio fratello
maggiore avevamo delle incombenze precise e quando mio padre veniva a casa alla sera
voleva sapere che cosa avevamo fatto per filo e per segno. A me piaceva molto giocare
e poco lavorare.E allora alla sera la mia grande preoccupazione era di potere enumerare
una grande quantità di faccende. Allora le spezzettavo:
"Ho lavato i piatti, poi ho lavato le
posate, poi ho lavato le pentole". Mi sembrava che enumerare più cose avesse più valore.
Eva Colombo Perché mio padre era anche severo.
Diceva:
"Devi fare questa cosa. La devi fare". C’era un orario
per fare i compiti e per andare a dormire. E lui ci ha sempre
seguito negli studi, aiutati. Mi ha insegnato lui a far da
mangiare e a tenere in mano l’ago. Quando mi sono
sposata, le cose di casa che sapevo fare me le aveva
insegnate tutte mio padre. Sì, perché era anche pignolo e
passava il dito sui mobili per vedere se avevo spolverato
bene. E castigava anche. Tutte le settimane mi comperava
"la donnina", e io l’aspettavo con ansia per leggere i
romanzi a puntate. Ma se non avevo fatto qualcosa me lo
dava magari dopo una settimana. Quello per me era il
castigo più brutto. Poi spesso e volentieri faceva partire
qualche schiaffo. Comunque ci ha tirato su abbastanza
bene.

A Milano fece anche l’imbianchino, andò a spalar la neve,
ne fece un po’ di tutte perché trovare un posto allora era molto difficile per lui. Poi noi
crescemmo, cominciammo ad andare a lavorare, venne la guerra, mio fratello maggiore
andò come militare di leva e fu mandato in Africa nel 1931. L’altro nel 1939. Mio padre
trovò anche qualche posto, ma sempre posti saltuari, senza una continuità. Durante la
guerra, per esempio, lavorava ai mercati generali, teneva l’amministrazione di un
grossista.
Quando io mi sposai nel 1939 e poi mio marito fu trasferito a Firenze dalla ditta, mio
marito riuscì a fare ottenere a mio padre un posto nella stessa ditta dove lavorava lui.
Venne a Firenze con noi e per un certo periodo rimase con noi. Poi lui litigò, perché il
carattere di mio padre era quello che era, non poteva sopportare imposizioni e a un certo
punto piantò lì tutto.
Mio padre era profondamente buono, amava i bambini e gli animali. Mia suocera per la
strada, durante i bombardamenti, aveva trovato una gallina.
Durante la guerra molta gente teneva le galline sui balconi per avere qualche uovo.
C’era stato quel terribile bombardamento dell’agosto del 1943 e si vede che una di queste
case era stata distrutta e le galline erano sopravvissute. E mia suocera ha trovato una
gallina per strada e se l’é portata a casa. Per un po’ l’abbiamo tenuta, le davamo
da mangiare. Poi questa gallina s’è ammalata di reumatismi, per cui a un certo punto si
decide:
"Ammazziamo la gallina".
Nessuno di noi se la sentiva. Io no, mia suocera no, mio padre - il grande rivoluzionario,
pronto ad ammazzare i fascisti e li avrebbe anche ammazzati - dice:
"Ah, io non
l’ammazzo". Allora la facciamo uccidere da un calzolaio compagno che abitava nelle
vicinanze. E mio padre a me e a mia suocera ci ha dato delle cannibali, perché avevamo
avuto il coraggio di mangiare quella gallina:
"Voi siete delle cannibali". "Ma papà abbiamo fame,
non abbiamo niente". In tempo di guerra avere un pezzo di pollo era una ricchezza! Eppure
lui, benché anche lui poveretto avesse fame, quella gallina non l’ha toccata.

In casa di mia suocera, che serviva un po’ da smistamento, venivano dei compagni che
tornavano dalla Francia. Alla sera, quando ci si trovava, magari si cantava;
ça ira ça ira
ça ira tous les fascistes à la lanterne.
E ci eccitavamo. C’erano Vittorio Bardini [Carlo Bianchi] e Ilio Barontini.

Mio padre fu anche uno dei primi a cominciare a portare su gli sbandati.
E a raccogliere aiuti per i partigiani. Allora non avevamo niente, però avevo quattro
lenzuola e me le tenevo d’acconto. E mio padre una volta m’ha fatto una scena:
"Quelle
lenzuola le devi dare ai partigiani, le devi tagliare… Cosa t’importa!". "Ma io ho solo queste quattro.
Se torna mio marito che è richiamato non ho neanche le lenzuola da mettere nel letto!".
Era un uomo molto buono, ma a volte arrivava all’eccesso.

Ho avuto delle liti infernali con mio padre. Era antifemminista e lui diceva di no, portando
ad esempio il fatto che quando fu creata la Repubblica dell’Ossola aveva proposto per
primo lui la Gisella Floreanini come Commissario all’Assistenza. Forse quando agiva come
compagno riusciva a spogliarsi da questo suo sentimento antifemminista e vedeva le cose
politicamente. Ma aveva un rancore segreto verso le donne in genere. Benché mi volesse
bene, ce l’aveva anche con me per il semplice fatto che ero una donna. Io lo sentivo e ne
soffrivo, anche perché ho sempre avuto un’adorazione per lui»
.

   …Poi ho fatto la partigiana

«Poi ho fatto la partigiana. Facevo la collegatrice in Valtellina e sono stata arrestata,
portata a Sondrio, poi da Sondrio a Como e da Como a San Vittore. Nel frattempo
trattavano lo scambio e sono stata scambiata con un ufficiale tedesco che era stato preso
prigioniero nell’Oltrepò Pavese. Ripresi a fare il collegamento tra Milano e l’Oltrepò
Pavese, ma in bicicletta e non più in treno. Con Fabio e Giorgio, Cavallotti. Quando decisi
nel ’44, mio marito era in guerra, non ne sapevo più niente perché all’8 settembre del ’43
era in Corsica e rimase tagliato fuori. Io tornai a Milano da Firenze e dissi a mio padre che
volevo partecipare. E mio padre dice:
"Se tu lo vuoi fare devi però ricordarti che se ti prendono
non devi parlare. I pericoli cui vai incontro sono che puoi essere fucilata, torturata". Mi prospettò
obbiettivamente tutti i pericoli.
"Se sei decisa fallo, ma cosciente di quello cui vai incontro". Io accettai e lo feci. Credo che forse mi riscattai di fronte a mio padre del fatto di essere donna, ecco. Era fiero di me.

Come può quel Giorgio Bocca descriverlo come un sanguinario? Certo, lui coi fascisti ce
l’aveva, ma credo che ne avesse anche delle buone ragioni per avercela. Proprio in quel
periodo che era in Ossola non sapeva niente di mio fratello maggiore che era in Africa;
mio fratello minore prigioniero in Germania; io, che ero partigiana, ero stata arrestata ed
ero a San Vittore. E mio padre l’aveva saputo da poco tramite il compagno Venanzi.
Quindi, credo che lui non fosse nello stato d’animo ideale per avere molte dolcezze verso
quella gente. Ma non credo che questi suoi sentimenti personali potessero farlo
annebbiare da non comportarsi con giustizia.

Certo negli ultimi anni lui era anche molto amareggiato per le vicende politiche, ma
aveva ancora una capacità di entusiasmarsi che io non ho più e che tante volte penso
e gli invidio. È morto praticamente di vecchiaia. Aveva appena compiuto i 79. È morto il
31 di marzo 1966. Sì, proprio si è consumato, si era ridotto proprio male. L’avevamo fatto
mettere in un pensionato a Como, era un bel posto anche. Ma oramai lui era malato, c’è
stato un tre mesi, poi peggiorò e allora lo portammo all’ospedale di Como. È morto di
collasso cardiaco ma praticamente era ormai tutto l’organismo che non funzionava.
È sepolto al cimitero di Albate, tra Como e Cantù.
C’è solo la lapide con la fotografia da partigiano, che lui ha fatto quand’era in Ossola. Quel poco di prezioso che aveva lasciò detto che fosse dato alle due nipotine, cioè la figlia di mio fratello maggiore e la figlia di mio fratello minore. La sciarpa della massoneria del padre deve averla mio fratello minore. Io riuscii ad avere la medaglia d’argento che gli dettero nell’Ossola al Decennale»
.

Anche Paolo Murialdi, nel suo libro di memorie partigiane
"La traversata - settembre ’43 - aprile ’45" ed. Il Mulino 2001,
ricorda Eva Colombo:
«L’Oltrepò partigiano è una mescolanza di cittadini e di
contadini […] Assomigliano tavolta a zingari ma di più a profughi
con armi disparate. […] Anche gli ispettori e le staffette che
vanno e vengono da Milano hanno qualcosa del profugo. Susi,
Dina, Giuseppe - le staffette che ricordo bene - avevano un
coraggio che ho sempre considerato superiore al mio che stavo
in montagna. Quante volte, anche anni dopo, mi sono chiesto se
sarei stato capace di combattere da clandestino a Genova o a
Milano.»

La figura di Susi è richiamata anche nel volume di Ugo Scagni "Donne nella Resistenza dell’Oltrepo
pavese" ed. Guardamagna 2001.

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