+ ANPI Voghera | Il fantasma dei mongoli

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«Poi è venuta la neve, era il 23 di novembre, allora è venuto il grande rastrellamento. Ecco gli alpini e i bersaglieri di De Logu, che cantano alla tedesca "per l’Italia, per l’Italia" e vuotano le case, ecco gli austriaci della stella alpina belli e terribili, ma avanti a tutti vengono i Kirghisi e i calmucchi e i mongoli del 162º reggimento, guai alla donna che passa per la vita di queste bestie umane».
Con queste parole, che si ritrovano nel volume "Il coraggio del no" (a cura di Ugoberto Alfassio Grimaldi, Amministrazione provinciale di Pavia 1981), Italo Pietra ("Edoardo") rievoca la terribile repressione antipartigiana (durata giorni e giorni) che investì l’Oltrepò pavese resistente tra la fine del 1944 e l’inizio del 1945.
Tra le truppe nazifasciste impegnate in questa operazione spiccarono per ferocia gli uomini divisione Turkestan, ex prigionieri di guerra russi delle regioni asiatiche, che per la popolazione locale saranno identificati, con terrore, come "mongoli". Queste furie « arrivano al combattimento ubriachi, urlando, e quando entrano in un villaggio predano, stuprano le donne di qualsiasi età. Ne hanno libertà per una preventiva intesa con il comando tedesco. Le cascine sono date alle fiamme». (Clemente Ferrario "Quelle nostre speranze d’allora", Guardamagna 2009).
Nel numero speciale "Memoria" della rivista "Diario" (pubblicato nel gennaio 2007) i giornalisti Claudio Jampaglia e Mario Portanova (coadiuvati dal fotografo Samuele Pellecchia) a quella vicenda dedicarono un reportage storico.
In occasione del 70º anniversario di uno degli episodi più drammatici, tragici, (e per molti versi eroici) della Resistenza in Oltrepò pavese, pubblichiamo sul nostro sito quella ricerca nella sua versione integrale.**

 

   Il fantasma dei mongoli

di Claudio Jampaglia e Mario Portanova
da "Diario del mese", numero speciale "Memoria" (Anno VII N.1 26/1/2007)

 

Massacri, saccheggi, stupri. Nell’inverno del 1944 si abbatté sulle colline piacentine e pavesi la furia della divisione Turkestan


«Me li ricordo bene. Uno l’ho interrogato. Per la verità ne ho anche fatti fucilare un paio». Angelo Del Boca è uno dei pochi che i fantasmi li ha visti davvero in faccia.
Un lembo di guerra dell’inverno 1944-45 adagiato tra colline che di urla, fuochi e implorazioni ricordano solo un nome buono per spaventare i bambini: i "mongoli". Nelle valli tra il piacentino e l’Oltrepò pavese tutti sanno a naso chi sono, ma le loro facce, la loro storia alla fine non la sa nessuno. Bisogna avere i capelli molto bianchi per ricordarseli oppure andarli a cercare. Vandali, barbari, incendiari, «mangiasapone e beviprofumo», carne da macello di Hitler scagliata contro la povera gente, stupratori di massa. Chi erano davvero gli uomini che si resero responsabili di violenze paragonabili a quelle dei soldati marocchini in Lazio, ma sulle quali nessuno ha mai pensato di fare un film?
I narratori di questa storia sono tre signori dai capelli molto bianchi e dalle vite molto diverse. Uno è lo storico Angelo Del Boca, che prima di diventare un grande inviato ha combattuto nel piacentino nella 7a Brigata partigiana di Giustizia e Libertà, dopo aver disertato dalla Repubblica sociale italiana portandosi dietro 15 alpini della Monterosa in armi. La sua storia è tutta nel titolo del suo bel romanzo storico-autobiografico: "La scelta" (Neri Pozza l’ha ripubblicato nel 2006). Il secondo è Giacomo Bruni da Zavattarello, nome di battaglia "Arturo", uomo di poche parole e molti fatti della garibaldina Brigata Crespi. Tre anni al fronte, poi scappa dall’esercito dopo l’8 settembre perché dei fascisti non ne può più e si ritrova 18 mesi dopo a Dongo nelle ultime ore del regime, dopo aver liberato Pavia e Milano. Di tre anni di guerra e uno di Resistenza gli rimane tanta rabbia «per il fascismo che non se n’è mai andato» e 30 euro di pensione. Il terzo si chiama Ugo Scagni e non ha fatto il partigiano per pochi anni, ma nei successivi quaranta ha raccolto memorie, diari, foto, testimonianze in quattro libri (tra cui "La resistenza scolpita nella pietra", Guardamagna 2003). Non c’è lapide, viottolo e cascina del suo Oltrepò che non conosca. Sono loro a portarci sulle tracce dei "mongoli".

 

-Scelte- Angelo Del Boca, all’epoca partigiano, combattè i "mongoli". Di uno di loro diventò amico

 


I mongoli, per definizione, arrivano da lontano. Tra la fine del 1941 e l’estate del 1942, dopo la caduta di Leningrado, i comandi tedeschi organizzano le Ostlegionen (legioni dell’Est), unità volontarie formate da prigionieri sovietici (anche se Hitler considerava la «stirpe slava» una «sottospecie umana»). Alcuni scelgono l’arruolamento per scampare alla prigionia e alla morte, altri, soprattutto tra le popolazioni che hanno subito la feroce repressione staliniana, pensano di allearsi con i nazisti per liberare le loro terre dal regime comunista. Il caso più noto è quello dei cosacchi che combatteranno in Friuli.
Il 20 aprile del 1942 viene istituita la Legione turkmena, che poi sarà inserita nei resti della vecchia 162esima divisione dell’esercito tedesco: nasce così la 162esima divisione Turkestan, composta da prigionieri per lo più musulmani: calmucchi, uzbeki, azerbaigiani, karakalpachi, tartari, ucraini, kirghisi, georgiani… Sono i tratti asiatici di alcune di queste etnie - per esempio i calmucchi, chiamati anche "finti mongoli" - a rimanere impressi nelle popolazioni che li incontreranno. Così gli uomini della 162esima diventano per tutti "i mongoli". Non sono i tempi del politically correct: nella memorialistica dell’epoca si ricordano «volti rotondi e giallastri», «piccoli, brutti e rognosi asiatici»
Un partigiano citato da Arturo Delle Piane in "Appunti sulla resistenza" (Marchese e Campora, Genova 1954) rievoca lo spavento suscitato dal «loro bestiale ululare», come «gli urli di un branco di bestie scatenate sulla preda».

Il comando dei 12 mila uomini della Turkestan viene affidato al generale tedesco Oscar von Niedermajer, grande conoscitore del Medio Oriente, che parla persiano, turco e arabo. Nel 1944 il generale viene processato per disfattismo e finirà i suoi giorni nel dopoguerra, prigioniero dei sovietici. Prende il suo posto il generale Ralph von Heygendorff, ex addetto militare tedesco a Mosca. Sarà lui a condurre le operazioni nel piacentino e nel pavese.
Addestrata a Neuhammerin in Slesia, un arco con freccia in campo rosso-azzurro sullo stemma della divisa verde oliva, la divisione Turkestan combatte sul Don e in Francia contro i partigiani. È con quest’ultima specializzazione che sarà inviata in Italia, con un ordine di Hitler datato 10 ottobre 1943. La divisione, che risponde direttamente al Comando della Wehrmacht, combatte innanzitutto sul litorale adriatico. La "linea Gengis Kahn", tenuta dalla 162esima nel ravennate, è ricordata nelle memorie del maresciallo Alexander, che la sfondò con le truppe britanniche. Intorno al giugno 1944 è impiegata sul fronte Sud. I suoi uomini agiscono nella lotta antipartigiana a Rimini, Ravenna, Riccione, nelle Valli di Comacchio e nelle province di Udine, Trieste, Gorizia, come racconta Pier Arrigo Carnier in "L’armata cosacca in Italia" (Mursia 1990).

Dai diari partigiani vengono segnalati anche nel lecchese, sul lago Maggiore e a San Sabba (Trieste). Secondo gli archivi tedeschi, in data 27 marzo 1945 i battaglioni "russi" associati alla Wermacht in Italia erano dieci. Come le altre divisioni venute dall’Est, anche la Turkestan ha la sua rivista, un settimanale stampato in 15 mila copie intitolato "Svoboda", cioè libertà. Proprio come lo storico quotidiano di Piacenza.

 

 

**Il testo è ripreso dal sito web digilander.libero.it/francescocoluccio che pubblicò l’articolo da Diario del mese, 26 gennaio 2007, per gentile concessione
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