Testimonianza di Ester Parri ( moglie di Ferruccio Parri "Maurizio",
uno dei massimi dirigenti della Resistenza ) che viveva in quegli anni a Voghera
e che vide dalla finestra della sua abitazione Gino Tarabella
( 21 anni, scalpellino di Massa Carrara )
cadere ucciso mentre tentava di fuggire alla deportazione da parte dei soldati tedeschi.
Ecco, ora so che sei veramente morto: ora che la mia vita, ripresa in pieno, ci giunge
attraverso cumuli di carta stampata e radio e rombi di motori in cielo in terra e in mare,
mentre cielo aria e luce su tutto questo crepitare di vita sono inalterati, come allora,
come in quel 9 settembre che fu il tuo ultimo giorno vivo.
Ora posso, chiudendo gli occhi, vederti riverso al suolo, come allora.
Solo il tedesco avrebbe potuto vedere come ti vidi io, se ti avesse guardato con occhi umani,
e tua madre non c’era.
Quei giorni sono così lontani che anche le madri e le vedove hanno in gran parte
smesso il lutto nelle vesti e qualcuna anche quello nel cuore, ed è logico tutto quanto
avvenne, di una fredda logica, quella stessa che aiuta il mondo a non crollare.
Dico questo pensando a te, che vidi fulminato sotto la mia finestra, come una madre
pregherebbe sulla tua tomba.
Perché quando il tempo ha livellato i ricordi, li ha decantati, è giusto
che qualche viso riaffiori, che qualche fatto venga ricostruito, qualche fatto
che è alla radice di questi nostri giorni di perenne fiera estiva
che fa talora la bocca amara.
La Storia verrà forse troppo tardi e avrà un altro compito.
Dunque era il 9 settembre 1943. "La guerra è finita" aveva urlato la radio.
"La nostra guerra comincia" si era detto in non molti.
In una cittadina lombarda, placida e grassa e operosa, Voghera, quel mattino
me ne andavo al mercato nella piazza del Duomo dove cumuli di frutta e verdura
si riversavano ogni giorno dalla campagna fertilissima: contadini e proprietari
si piantavano per la via Emilia dritti e fermi come i pioppi dei loro campi, così dritti e fermi
che per aprirsi un passaggio si doveva dire con molta cortesia: "Scusi, dovrei proprio passare"
e bisognava talvolta spingerli e allora ti guardavano tranquilli e sorpresi
come se, armata di una sottile rete di nylon, tu avessi preteso il loro portafogli.
LA CITTÀ DESERTA
Ma quella mattina nella strada nessun carro sollevava nuvoli di polvere,
come obbedendo a occulti ordini o presentimenti la città appariva deserta.
Solamente davanti alla caserma di cavalleria nel viale di circonvallazione
sostavano veicoli militari.
Dal portone spalancato, passando fra due tedeschi con la pistola in pugno, i nostri soldati
uscivano ad uno ad uno, gettavano il moschetto su di un mucchio alla loro destra
e salivano sull'autocarro più prossimo.
Non si dimentica il volto di quei soldati che cercavano con un lungo sguardo in giro un saluto
che solo alcune donne lontane e spaventate potevano dare,
ed era inutile piantarsi le unghie nel palmo delle mani.
Via Emilia era deserta, deserta la piazza del Duomo, chiuse le porte dei negozi
e un silenzio affocato che faceva apparire più bianche e più piccole le case.
Ma in un angolo dei bassi portici della deserta piazza, un soldato tedesco
con nastri da mitragliatrice al collo stava accanto ad un giocattolo di guerra,
non più grande di quelli che per Natale sognavano i bimbi avventurosi, e come un bimbo
si divertiva a manovrare le lucide canne in ogni direzione.
Al lato opposto della piazza stava un identico soldato.
Forse era possibile strozzarli.
In Duomo qualche vecchia ascoltava la Messa e pareva che
nulla nel mondo stesse accadendo.
UN MUCCHIO DI FUCILI
A pensarci ora viene da domandarsi se noi, uomini, donne e ragazzi,
fossimo tutti vigliacchi o tutti spaventosamente saggi: eravamo di pietra viva.
Quando tornai a casa, dalla caserma uscivano ancora soldati e il mucchio
di moschetti era altissimo.
Fu nel pomeriggio, verso le diciotto, quando le imposte erano ancora chiuse per il sole caldo,
o per un senso di sgomento, che urla selvagge mi fecero correre alla finestra.
Era appena uscita di casa una donna che mi aveva chiesto pantaloni, camicie;
quanto potevo dare per "quei poveri fieui" che li attendevano nascosti nelle case vicine
alla caserma: povera uniforme del nostro esercito,
strappata di dosso come bruciante vergogna.
Socchiudendo appena le imposte spiavo la via e fu allora che ti vidi, soldatino,
apparire di corsa all’angolo della via, e cadere riverso, freddato dall’energumeno
che ti inseguiva.
I colpi sparati all’impazzata già dovevano averti finito, così pesante e immobile
eri sul grigio selciato, e ancora bestialmente il tedesco sparava.
E il tuo viso era roseo nella chiazza di sangue che s’allargava intorno al tuo capo.
Poi il tedesco ti toccò con il grosso piede e attese che altri giungessero,
e la rivoltella ancora fumava.
Chi sa che visi avevano quelli che ti portarono via.
Rimase la grande macchia rossa, un cagnolino bianco trotterellando,
la lingua penzoloni, si avvicinava, e allora urlando spalancai la finestra.
Non so quali mani pietose lavarono la macchia.
Forse tua madre ti attendeva in una casa vicina ed era pronto l’abito
che ti avrebbe forse salvato.
Quale destino avresti avuto se invece di fuggire saltando il muro di cinta della caserma,
come tanti altri avessi varcato il portone buttando il moschetto sull’alto mucchio?
Ne sono morti tanti di soldati sotto tutti i cieli e solo le madri li contano con pietà e riverenza,
come devono essere contati, senza calcolo politico.
Tu sei forse stato il primo a morire in quella nostra tristissima guerra.
Non hai visto il peggio.
Sei morto con il tuo sogno di libertà intatto, avevi il volto sereno.
Incutono terrore i visi disperati e tanti uomini sono tornati disperati alle loro case.
Su questi passano le vicende della vita con tale ferocia e con tale incoerenza
che trattati di pace, nuove guerre, fame, canzonette, pazzesche rievocazioni di sforzi offensivi,
lotte e vanità politiche hanno la stessa monotonia, corrosiva.
Ma il tuo viso che non fece in tempo a conoscere la stanchezza e la delusione era bello.
Io a te, primo di una lunga schiera di vittime innocenti, non ho nulla da offrire.
Da questo continuo affannarsi per vivere non traggo che, come tanti altri, le mani vuote:
vuote del bene che si dovrebbe aver fatto, che non si riesce di fare,
per onorarti, per onorarvi.
Te ne devo chiedere scusa.
Il documento è stato pubblicato negli anni scorsi
da "Il Giorno"
e dal settimanale "La Città".
La testimonianza di Ester Parri è inclusa anche nell’opuscolo
in formato pdf Materiale Resistente Anno 2003 511kb
che l’ANPI Voghera ha realizzato per il 60° anniversario della Liberazione.