+ ANPI Voghera | Il fantasma dei mongoli

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È solo una coincidenza ovviamente, perché fino al novembre 1944, in quelle valli a cavallo tra Emilia e Lombardia nulla si sa della Turkestan. È cosa nota e dibattuta, invece, l’impantanamento degli Alleati sull’Appennino tosco-emiliano e il rinvio dello sfondamento della linea gotica a primavera. Le zone liberate in estate sono a rischio. Bettola, Peli, Bobbio, capitali di una vasta area collinare amministrata dalla Resistenza, stanno per cadere sotto l'avanzata di "nuovi barbari". Che arrivano come fantasmi.

«Ero da solo sulla strada che dal Monte Penice scende a Bobbio e a un certo momento sentii il rumore delle carrette che passavano», racconta Angelo Del Boca. «Queste carrette erano trainate dai loro cavalli e venivano proprio dall’Unione Sovietica. Sono rimasto lì quasi un’ora, il tempo di veder passare circa duemila uomini che marciavano in salita. Mi era scomparsa persino la paura. Ero allibito, allucinato da queste figure nere che sfilavano in un grande silenzio. Non lo dimenticherò mai».
La voce di una grande offensiva tedesca contro i partigiani si sparge intorno al 22 novembre. «Sapevamo solo che nella zona di Stradella si era schierata una divisione», ricorda lo storico. «Facemmo un giro tra le nostre postazioni. Eravamo preoccupati, avevamo già respinto altri attacchi ma su scala più piccola, magari cento uomini della Decima Mas o cinquanta di una Brigata nera, cose che non ci preoccupavano più di tanto. Qui invece avevamo davanti 10-15 mila uomini con i cannoni, una cosa completamente diversa. Venimmo così a sapere che la divisione era composta per tre quarti da "mongoli", questo fu il nome che da subito venne dato loro.
A me che avevo studiato, il termine faceva venire in mente Gengis Kahn, la Cina»
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All’alba del 23 novembre, l’artiglieria nazi-mongola comincia a tempestare le postazioni della Resistenza e avanza. «C’aera una nebbia che non si vedeva a due metri, ci sparavi ma non vedevi niente anche se li sentivamo avanzare e le staffette ci dicevano che venivano su in migliaia». Giacomo Bruni, "Arturo", e quelli della brigata Crespi si ricordano bene quella mattina e la maledetta settimana del grande rastrellamento, davanti a un nemico cento volte più armato e numeroso che infieriva sistematicamente sulla popolazione civile.
«Quando ho portato il camion dove c’è ora la farmacia in piazza a Zavattarello, li abbiamo visti sbucare dalla nebbia, a venti metri da noi. Avanzavano che sembravano ubriachi, guidati dai fascisti italiani del paese. Ma erano ombre: in faccia, di mongolo, non ne ho visto uno, al limite russi, georgiani».
I fantasmi non sono venuti solo a spaventare. Non c’è diario, testimonianza di civile o combattente che non cominci così: «Bruciavano le cascine, ammazzavano gli animali, violentavano le donne e portavano via gli uomini, quando non li fucilavano». L’onda d’urto del rastrellamento marcia su due linee, da Rottofreno sulla statale della Val Tidone e da Casteggio a tagliare l’Oltrepò pavese.
La Turkestan è accompagnata dalle divisioni fasciste Littorio e San Marco, dalle Brigate nere piacentine Pippo Astorri «al completo», più battaglioni di alpini della Monterosa e di bersaglieri che, come ricorda "Arturo", salivano cantando: «Avanti o popolo noi siamo belli contro i ribelli vogliamo andar». Quasi 21 mila uomini tra quelli all’attacco o a disposizione a Voghera, Broni e Stradella.
Le violenze iniziano prima ancora di scontrarsi con i partigiani, a Nibbiano con le fucilazioni in piazza, mentre a Ponte Carmelo, Costa Grassa, Canavera, Ca’ del Zerbo vanno a fuoco le cascine. Le valli si riempiono di puzza di animali morti, spari e pianti. Ogni stradina, fienile e frazione è passata al setaccio.

 

Tra i primi a cadere in battaglia due contadini, Giovanni Botti ed Enrico Bergonzi, mandati davanti alle colonne nemiche come scudi umani e falciati dal fuoco cieco nella nebbia delle postazioni partigiane.
«Ci rendemmo subito conto che così non si poteva più combattere e ripiegammo, ma non potevamo non provarci», racconta "Arturo".
Si battono uno contro cento, mitra Sten contro artiglieria e la guerra di movimento partigiana non ha più spazio. Alcune brigate sbandano, molti scappano. Rossi e bianchi si accusano reciprocamente di aver abbandonato, di non aver resistito abbastanza. Ma il "Diario di guerra" della 14esima armata tedesca, dalla quale dipendeva la Turkestan, parla a più riprese di «resistenza ostinata», «combattere impetuoso» dei partigiani e «grandi difficoltà» incontrate in quell’avanzata.

 

-Amarezze- Giacomo Bruni, nome di battaglia "Arturo": molti ricordi e molta rabbia «per il fascismo che non se n’è mai andato»

 

Lo ricorda Del Boca, in un articolo su "Studi Piacentini", rivista dell’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea (n. 14, 1993), che ricostruisce giorno per giorno la cronaca della battaglia. Nel primo giorno di scontri, scrive, «i nazi-mongoli lasciavano sul terreno 200 tra morti e feriti, i partigiani lamentavano sette morti e 11 feriti». Il 24 la Resistenza tiene, ma le munizioni scarseggiano e la nebbia si alza. Così, nel tardo pomeriggio, gli attaccanti varcano i fiumi Tidone e Tidoncello e puntano sulle alture. Il 25 i partigiani si riorganizzano sulla destra del Trebbia, mentre la 7a divisione di GL resta sul Penice a difesa di Bobbio, ma la notte stessa i nazi-mongoli occupano la vicina Pecorara.

Dove si combatte, la rappresaglia si abbatte più violenta. A Pometo, riconquistata per qualche ora, i mongoli si danno a tre giorni di saccheggi e violenze sulla popolazione, portandosi via 221 carri carichi di merce d’ogni genere. Stessa sorte per Ruino, Carmine, Trebecco e Zavattarello.
Gli stupri sono sistematici. A Romagnese e Bobbio scendono in campo don Picchi e monsignor Bertoglio, che riusciranno a evitare il peggio in cambio di promesse di resa ed equilibrismi disperati.

«Noi della 7a Brigata li vedemmo per la prima volta la mattina del 26», racconta Del Boca. «Erano circa le 11. Quello che ci colpì fino a spaventarci furono i traccianti sparati dai mongoli con armi pesanti, che fendevano la fitta nebbia del bosco. Era una cosa tutta diversa dalle azioni mordi e fuggi che eravamo abituati a fare, questa era la guerra vera. A un certo momento vidi che sulla mia sinistra non c’era più nessuno. Il tenente che avevo di fianco era andato via con i suoi uomini. Ho dovuto trattenere i miei con la pistola in mano. Ero terrorizzato anch’io come loro, ma avevo una responsabilità».

Impossibile reggere quell’urto, i partigiani indietreggiano ancora e si attestano a Coli e Peli, sulle colline che sovrastano Bobbio. Sentono le prime notizie di eccidi di civili, stupri, incendi e violenze che i mongoli compiono nei paesi già conquistati.
È anche sull’onda dello sdegno, nota Del Boca su "Studi Piacentini", che il 27 novembre, in quattro imboscate, i partigiani uccidono 55 nazi-mongoli che cercano di arrivare a Bobbio dalla statale per Piacenza. Altrove si processano e fucilano diversi prigionieri.

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