+
Non sono i soli "mongoli" a rinforzare nel ’45 le fila della Resistenza. Ugo Scagni ne ha scovati altri. «Alla cascina Ranfusina, dietro Pietra Gavina, grazie alla mediazione dei contadini che li sfamavano, circa venti "russi" passano coi partigiani; altri venti a febbraio a Bobbio; altri otto a Zavattarello, con un ufficiale». Sono in stragrande
maggioranza ucraini e georgiani, il che facilita la necessaria rivalutazione del nemico per accettarlo tra i propri.
E così nei diari delle Brigate i "mongoli" diventano immediatamente "russi" (o "sovietici"). Non sono più le belve di qualche settimana prima, ma soldati obbligati a combattere. E in tanti lo faranno fino alla fine. Come "Ruspo", uno dei migliori mitraglieri della Brigata Aliotta, ucciso il 29 gennaio a Ceci e rimasto ancora oggi senza un nome vero.
La Befana del ’45 porta quindi in regalo ai partigiani un po’ di combattenti "russi" mentre il grosso dei "mongoli"viene trasferito in Piemonte, dove continuerà a coltivare la propria fama. La diminuzione del controllo favorisce la ripresa della Resistenza, ma il terrore per la popolazione civile assume il nome della famigerata Sicherheits, la polizia politica di Broni-Voghera, comandata dal colonnello Felice Fiorentini.
Ogni giorno un paio di rastrellamenti, incendi e saccheggi, arresti, torture all’hotel Savoia di Broni e al castello di Cicognola, fucilazioni «senza remissione».
Sono la locale "banda Carità", fiorita nel disprezzo per la vita propria e altrui. Gente che lavora sul terrore e la delazione, senza verifica della fonte; hanno licenza d'uccidere partigiani, renitenti, contadini che li nascondono e chiunque si metta di mezzo, come il parroco di Corvino San Quirico crivellato in chiesa perché in maniera
sospetta scampana la mezza prima del tempo mentre loro rastrellano il paese. Lo faceva tutti i giorni, ma i repubblichini non si danno pena di chiedere.
Le vittime in un mese di «polizia» saranno più di un centinaio. E i responsabili, antesignani dei torturatori argentini, faranno quasi tutti una brutta fine: fucilati prima o dopo la Liberazione. Il colonnello Fiorentini, in uno di quegli episodi oggi non commentabili, viene portato in giro per i paesi dentro una gabbia e ricoperto di sputi, insulti, escrementi da paesani assetati di vendetta. Verrà processato e fucilato tra i primi. Giuseppe Setti, Arturo Baccanini (di Zavattarello) e Benito Bortoluzzi, invece, sono gli ultimi condannati a morte nel settembre del '45 per vari atti, tra cui lo stupro.
Si salvano però quasi tutti i loro delatori, i loro galoppini. Nel silenzio che avvolse il dolore di prima e nella frenesia di tornare a vivere oggi, spariscono diventando nuovi fantasmi della valle, vicini che accusarono vicini per gelosie o per paura; cugini, amici, compagni di scuola che pensarono di salvarsi facendo uccidere un altro. Non se ne parla più, la guerra è finita e si va in pace, seppellendo morti e vivi
-Raccolte- Ugo Scagni scava da molti anni nelle memorie partigiane dell’Oltrepò pavese
Resiste al tempo solo il fantasma dei "mongoli", i barbari colpevoli di tutto. Di loro si parla ancora, delle loro vittime invece non si è parlato quasi più. Il silenzio accomuna soprattutto delatori e donne stuprate, gli uni per salvarsi, le altre perché non dovevano esistere. E sono proprio queste ultime i terzi e tragici fantasmi finali di questa storia.
Per Del Boca le donne violentate in queste valli sono comparabili a quelle brutalizzate dalle truppe marocchine al seguito dei francesi in Lazio. «Qui i mongoli hanno fatto quel che hanno voluto per tre mesi, da novembre a gennaio, e la violenza oltre che sistematica era anche politica e ideologica. Solo in Val Luretta sappiamo di 30-40 donne
violentate ed è la valle più piccola, se aggiungiamo Val Trebbia, Val Tidone, Val Nure e l'Oltrepò pavese, superiamo il migliaio di casi noti. Poi ci sono quelli di cui mai si è saputo».
La riflessione storica è accompagnata dal racconto del secondo faccia a faccia con i mongoli. «Un paio di settimane dopo la cattura di Elia, eravamo al nostro distaccamento sul Penice, quando arrivò da noi una ragazza disperata. Ci chiese di correre subito a casa sua, dove erano arrivati tre mongoli con pessime intenzioni nei confronti della madre e delle sorelle. Presi due ragazzi, ci precipitammo giù e arrivammo mentre questi signori stavano mettendo in atto i loro propositi. Questi cretini avevano lasciato le armi per abbassarsi i pantaloni e li catturammo senza problemi. Devo dire che mai sono stato così cattivo in vita mia. Feci fare loro il ritorno fino al comando a calci nel culo. Provavo odio e rabbia. Il comandante diede l'ordine di fucilarli subito, in tre o quattro li presero e li portarono in un boschetto. Due mongoli caddero morti, il terzo, ferito, rotolò giù in una gola e riuscì a scappare. Non prenderlo fu un grave errore,
perché qualche notte dopo arrivò un attacco che fece fuori tutto il distaccamento. Morirono sette o otto dei nostri».