«I casi di stupro noti sono almeno un migliaio, è
una storia paragonabile a quella dei soldati marocchini in Lazio»
La tesi di
Del Boca sulla dimensione delle violenze sessuali in quelle valli sembra confermata dal diario - recuperato da
Scagni - di un prete in servizio all’ospedale di Varzi. Scrive il 2 dicembre 1944
don Alessandro De Tommasi:
«Le gravi voci di violenza sulle donne da parte delle truppe germaniche,
comprendenti uomini d’ogni nazionalità, vengono confermate da una circolare segreta inviata dall’autorità agli ospedali in cui si autorizzano gli aborti per far scomparire le prove della violenza».
Segue un durissimo
tua culpa contro la Rsi e il sovvertimento della morale cristiana. Ma quello che interessa qui è ipotizzare che nel pieno del rastrellamento l’autorità della Rsi (la prefettura di Pavia) si preoccupasse della questione. È verosimile?
Secondo diverse testimonianze sì. Il
fantasma dei mongoli era già in zona e vi immaginate come celare il frutto del peccato dai tratti caucasici? L’importante è che tutto rimanesse segreto. Così agirono anche i partigiani, nonostante alcuni diari raccontino di bandi
affissi nel marzo ’45 per invitare le donne violate a presentarsi all’ospedale. Ma non ci fu e non ci poteva essere una scelta politica o pubblica sullo stupro. Se aborti vi furono, non ne resta traccia ufficiale.
Ne parlano diversi diari, indicando una data (inizio aprile) e un ginecologo di Pavia a cui era stato affidato in discrezione l’incarico. Lo stupro, ancora più della scelta di campo, è una questione privata da seppellire nel fondo delle cantine. A queste poverette rimase solo
«l’onore del silenzio».
D’altronde che cosa poteva fare una ragazza di Gazzola come la
Nerina, nemmeno diciottenne, obbligata a sedersi su una stufa di ghisa arroventata perché si rifiuta di darsi ai mongoli e poi stuprata da
14 soldati in fila? Chi l’avrebbe più presa o desiderata se il fatto fosse stato pubblico? Quella violenza la condannava a vita.
«Negli anni successivi la ragazza appariva rassegnata e spenta, non riuscivi mai a strapparle un sorriso,
lavorava e viveva, ma era come se si fosse fermata», racconta
Del Boca che la
Nerina l’ha conosciuta, ma non chiedetegli il nome vero della donna.
Il pudore e il rispetto. Ogni volta che ne abbiamo parlato
Ugo Scagni ha sempre premesso:
«Non chiedetemi i nomi, in quarant’anni io non li ho mai chiesti».
Ma in paese tutti li sanno e sulle vite di queste donne e famiglie - e forse su quelle dei loro figli - pesa come un macigno la violenza e la sua rimozione forzata.
Dei loro carnefici non rimane un nome, una tomba.
Nel sacrario delle truppe tedesche al Passo della Futa (tra Fiorenzuola e Pistoia) una sola lapide collettiva ricorda la
162esima Turkestan, in mezzo a migliaia di croci della
Wehrmacht. Le truppe mongole erano carne da macello e nessuno in guerra si
dava troppa pena per la loro sepoltura. A volte, raccontano i partigiani, finivano a testa in giù nei letamai. Non erano nemmeno merce di scambio come prigionieri - i tedeschi non li consideravano - ma solo bocche da sfamare. È la guerra, da vincere e far finire, costi quel che costi.
Il 5 febbraio comincia la riscossa delle colline, a marzo strade e paesi sono tornati liberi e il 12, come ricorda una lapide scritta a mano a
Costa Pelata,
"i partigiani travolsero nazifascisti e mongoli preannunciando la vittoria del 25 aprile". Dalle colline i mongoli sono finalmente scomparsi.
Il loro destino, però, è segnato.
A fine aprile 1945, la
Turkestan è retrocessa verso le Alpi, a sud del Trentino-Alto Adige, inquadrata con altre divisioni tedesche nel
76º Panzer Korps agli ordini del
generale von Graffen. Il settimanale
Svoboda continua a propagandare la vittoria finale, mentre tutto il mondo è certo dell’imminente tracollo nazista.
Gli uomini venuti dall’Est sono allettati dalla promessa di un Turkestan indipendente dall’Unione sovietica, una terra promessa dal Mar Caspio ai confini con la Cina.
Il 4 maggio la divisione attestata a Moena si arrende agli americani, come annota sul suo diario il
generale von Heygendorff. L’11 maggio i prigionieri vengono spostati in provincia di Belluno. Alcuni reparti fuggono al di là del Piave e si ricongiungono ad altri russi in ritirata verso l’Austria. Gli altri vengono concentrati a Modena, poi portati in treno a Taranto.
Non sanno che la loro condanna è già stata decisa ai massimi livelli: alla Conferenza di Jalta, nel febbraio del 1945,
Stalin aveva ottenuto dai britannici la consegna di tutte le truppe russe che avevano combattuto a fianco dei nazisti.
L’accordo era rimasto segreto e gli inglesi lo onorarono con l’
Operation Keelhaul: diedero la garanzia della salvezza a cosacchi, ucraini, "mongoli" e a tutti gli altri, prima di caricarli sui treni per l’Urss.
Alcuni morirono o si suicidarono nel trasporto, molti - in particolare gli ufficiali - vennero immediatamente uccisi dai sovietici, gli altri finirono nei gulag della Siberia. La
Turkestan fu riconsegnata nel 1946. Il suo generale resterà prigioniero fino al dicembre del 1947 e morirà, libero e in pensione, nel 1953.
Elia è uno dei pochi sopravvissuti.
«Finita la guerra, ci ritrovammo tutti a Piacenza», ricorda
Del Boca,
«i georgiani volevano tornare a casa e noi gli esprimemmo le nostre perplessità. Avevano tradito tutti, i russi e i tedeschi, che cosa li attendeva in Unione Sovietica?
Il nostro comando decise di dare a ciascuno di loro un attestato che dimostrasse che avevano combattuto contro i tedeschi. Non ero convinto e avevo ragione. I russi che avevano combattuto insieme ai nazisti finirono tutti ammazzati. I britannici furono di una crudeltà spaventosa, sapevano benissimo come sarebbero finiti. Elia si salvò perché invece
di accodarsi al branco tornò a casa per conto suo. Arrivato a Tbilisi, grazie alle sue amicizie, nessuno lo toccò».
I giornalisti Claudio Jampaglia e Mario Portanova, insieme allo storico della Resistenza in Oltrepò Ugo Scagni, sono stati ospiti, il 10 Marzo 2007, di un’iniziativa molto partecipata organizzata
dalla sezione ANPI Voghera in cui sono state ripercorse le tappe del rastrellamento dell’inverno 1944-45, ricreando il clima di brutalità e violenze contro la popolazione civile e, in particolare, le donne. Nel corso della
Nel corso dell’incontro gli autori della ricerca storica "il fantasma dei mongoli" hanno ricevuto la tessera ad honorem della sezione iriense dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia.
L’evento in questione è stato anche richiamato in un articolo da "Patria Indipendente" (in formato pdf 122Kb), la rivista dell’ANPI, nel numero di Giugno 2007.
In un’intervista del 25 gennaio 2007, apparsa sulle pagine del "Corriere della Sera", Angelo Del Boca si soffermava su quegli avvenimenti che lo videro protagonista.
Il terribile rastrellamento invernale 1944-1945 non investì unicamente l’Oltrepò pavese ma anche altre zone, tra le quali l’Appennino ligure-piemontese e la provincia di Piacenza.
Riviviamo quei giorni attraverso alcuni stralci e frammenti di pagine tratti dai seguenti volumi: