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   Al crocevia di quattro regioni, aspetti
   della Resistenza nell’Oltrepo pavese


di Pierangelo Lombardi

Il 28 aprile 1945, con la fucilazione di Mussolini e dei gerarchi fascisti sulle rive
del lago di Como, era toccato proprio ai partigiani dell’Oltrepo Pavese chiudere un conto
che si era aperto 23 anni prima, allor quando, a Milano, le squadre lomelline di Cesare Forni avevano preso possesso con la forza di Palazzo Marino, spianando al fascismo la via della definitiva conquista del potere.
Così come la Lomellina era, appunto, stata, anni addietro, una regione di punta
nella geografia del fascismo lombardo e nazionale, era, ora, un altro territorio pavese
a sancire, con un atto di intrinseca drammaticità, ma di alto valore simbolico,
il proprio ruolo di protagonista nella storia d’Italia.
Quello dell’Oltrepo Pavese è un territorio che si propone all’osservatore come un area cerniera tra regioni, culture, tradizioni assai differenziate tra di loro.
Proprio per le sue caratteristiche geografiche e storiche la zona è inserita, senza soluzione di continuità, in un comprensorio ben più vasto che si sviluppa ed estende intorno
al sistema montuoso dell’Appennino ligure-alessandrino.
Dalla localizzazione dei primi gruppi ( almeno fino alla tarda primavera del ’44 )
emerge prima di tutto un elemento di grande interesse.
Nel quadro della primitiva organizzazione e delle prime azioni partigiane, è fuor di dubbio la priorità del Piacentino e delle aree liguri e alessandrine sull’Oltrepo.
Non solo i gruppi più numerosi e di maggior peso si van formando ai margini
di quelli che sono i suoi confini amministrativi, ma sono proprio loro i protagonisti delle prime, più
clamorose azioni e incursioni in territorio pavese.

 

 

Ciò non esclude, ovviamente, la presenza di piccoli nuclei più direttamente legati
al territorio - Primula Rossa ( Angelo Ansaldi ), Tundra ( Tiziano Marchesi ),
Fusco ( Cesare Pozzi ) - o costituiti intorno a sbandati o prigionieri di guerra
di ogni nazionalità che avevan trovato rifugio in Oltrepo.
Né si vuole sottovalutare la presenza, subito dopo l’8 settembre, di una rete clandestina di
appoggio e di smistamento per i renitenti, sbandati e sfollati lungo i paesi di pianura e della prima fascia collinare.
Quel che, però, è certo, è che tardano a farsi strada, nel territorio, i primi esempi di gruppi armati con alle spalle precisi referenti politici e/o organizzativi.
Chi si rifugia in montagna ha un unico denominatore comune: il rifiuto della guerra
e la volontà di sopravvivenza.
Chi, invece, ha obiettivi più ambiziosi in genere viene dal versante ligure e guarda, come
riferimento, soprattutto a Genova né è sicuramente un caso, che, nel ’44, l’Oltrepo
partigiano graviti in buona parte sulla VI zona ligure.
La prima fase è, dunque, segnata da un ribellismo immediato e da una disobbedienza istintiva.
Talvolta questi atteggiamenti si esprimono con l’incontro tra i piccoli nuclei costituiti e i giovani
sbandati e/o renitenti del luogo; talaltra, si verifica il caso del capo, solo,
che cerca una banda ( l’incontro del "Greco" - Andrea Spanojannis - ad esempio,
con i giovani di Costalta e di Pecorara ).
In qualche caso neppure è possibile una distinzione netta tra le bande, tanto frequenti
sono smembramenti, assorbimenti e fusioni.
I caratteri tipici di questa fase sono una forte disorganizzazione, uno spiccato senso giovanile
dell’avventura, il giudizio sommario e semplificato intorno a tutto ciò che, in qualche modo,
poteva evocare il fascismo ( e che legittimava anche pericolose scorciatoie) .
Non è senza significato che proprio intorno alla banda del "Greco" ( con il suo disarmo,
in luglio, e il passaggio dei suoi uomini in parte alla "Crespi", in parte alle " GL" )
si consumi un episodio decisivo ai fini del passaggio dalla fase delle "bande" spontanee
a quella delle formazioni organizzate.

 

 

Dopo la liberazione di Roma, in giugno, è ormai diffusa la convinzione che si sia
davvero alla resa dei conti.
La situazione è in rapida evoluzione: la durezza dello scontro impone scelte di campo.
La comparsa "ufficiale " dei partigiani nella montagna varzese, alla fine di maggio,
la presenza crescente di gruppi, più o meno organizzati, e il rifiuto dei bandi di chiamata
alle armi porta man mano al superamento dell’atavica diffidenza contadina.
Il processo di espansione partigiano va dal Brallo verso Nord, con il progressivo
assorbimento dei vari gruppi locali.
Si costituiscono la 51°"Capettini" e la 87° "Crespi" ( garibaldine ).
Ancora più a nord, si colloca la "Matteotti" che definisce il suo raggio d’azione
tra la valle Scuropasso e l’alta Val Versa.
A est, in collegamento diretto con il Piacentino, le formazioni di Giustizia e Libertà.
È questa, una fase complessa e caratterizzata da forti tensioni, sospetti, azioni di disarmo
e colpi di mano tra le formazioni che controllano i due versanti, pavese e piacentino.
Finalmente, l’11 agosto, la conferenza di Romagnese delinea un assetto, lungo la linea spartiacque Penice-Romagnese, che non subirà modifiche sostanziali fino alla Liberazione.
Il progressivo disarmo dei presidi fascisti e l’espansione verso la media collina
allontanano la minaccia fascista diretta, limitandosi, la stessa, ad occasionali - ma non per questo, meno pericolose - puntate brigatiste.

 

 

Dopo la battaglia dell’Aronchio, il 25 luglio - dove i contadini combattono a fianco dei partigiani
con armi di fortuna - e la conquista del castello di Pietragavina, a metà agosto, tutta la montagna e l’alta collina sono sotto il controllo partigiano.
Ne resta esclusa, al fondovalle, solo Varzi, nei confronti della quale va maturando
un sentimento di rivincita e di resa dei conti da parte dei paesi della montagna.
Proprio da Varzi, il 26 agosto oltre un migliaio tra tedeschi e fascisti attaccano le posizioni partigiane e puntano su Bobbio, lungo la direttrice Penice-Brallo, nel quadro di una vasta operazione di rastrellamento che, investendo anche l’Alessandrino e un ampia porzione dell’Appennino ligure-emiliano, ha lo scopo di ristabilire le comunicazioni
tra la Liguria e la valle del Po.Il rastrellamento investe la montagna.
Allo scontro frontale non si regge e la difesa rigida delle posizioni si rivela perdente
( più accorto si rivelerà l’atteggiamento dei garibaldini liguri ).
Le antiche polemiche tra le formazioni trovano nuovo alimento dal cedimento
giellista sul Penice. Lo scoramento e il disorientamento durano, però, solo pochi giorni.
Tra la fine di agosto e i primi di settembre la maggior parte dei reparti tedeschi e fascisti abbandonano il territorio conquistato.
Il rastrellamento - il primo, in grande stile - ha fatto emergere molti problemi
( fra tutti, la fragilità dell’organizzazione e l’azione frammentaria e isolata):, ma ha suggerito anche preziosi insegnamenti.
Il successo fascista si rivela più apparente che reale e non è in grado di impedire,
di li a poche settimane, la ripresa partigiana.

 

 

Sul piano militare si assiste a una più vasta espansione e riorganizzazione delle formazioni.
I contrasti e gli strascichi polemici paiono definitivamente superati.
Il 2 settembre viene firmato un accordo di collaborazione militare tra GL e garibaldini.
I problemi organizzativi e di inquadramento delle formazioni trovano nuova soluzione.
Mentre le forze partigiane si riorganizzano ed accrescono la loro efficacia operativa,
alla fine di ottobre un vasto territorio liberato e controllato dalle formazioni si spinge fino alle propaggini della bassa collina.
Rispetto a luglio-agosto esso è accresciuto con la conquista di Varzi e di tutta la media/bassa Valle Staffora, fino a Godiasco.
Con la presa di Varzi l’Oltrepo Pavese acquista una dimensione e un respiro tali
da affiancarsi alle altre tre zone libere ( piacentina, ligure e alessandrina ).
Si viene così a creare una curiosa commistione tra la forma della zona libera e la
Repubblica partigiana vera e propria, laddove la situazione di stabilità raggiunta dava origine
all’organizzazione di un autentico governo sul territorio.
Su questa vastissima "zona libera" si scatena, a fine novembre, la furia nazifascista.
Il contesto generale, caratterizzato dal proclama Alexander e dall’arresto delle
operazioni sulla "linea gotica", è fin troppo noto.

 

 

Un "inverno di sangue" promettevano i volantini lanciati dalle ’cicogne’ naziste
sui territori partigiani.
Questa volta lo scopo dei nazifascisti era quello di condurre un attacco definitivo,
annientando le formazioni e impartendo una dura lezione alle popolazioni di quelle valli
che collaboravano con i "ribelli".
Il rastrellamento, che parte proprio a nord-est dello schieramento partigiano ( dal Pavese e dal Piacentino ) è una vicenda militare assai complessa, un mosaico di fatti d’arme grandi e piccoli,
una lunga serie di episodi, di violenze, di lutti.
Il piano tedesco era quello di spingere sulle cime dei monti tutte le formazioni con una grande manovra di accerchiamento.
Il 23 novembre i rastrellatori si muovono lungo le direttrici della Valle Scuropasso e della
Ghiaia dei Risi verso lo spartiacque di Costa Cavalieri/Torre degli Alberi.
Di qui al Carmine e a Ruino.
Da Zavattarello si scende a Pietragavina, da una parte; a Romagnese e al Penice, dall’altra.
La zona è sconvolta e messa a ferro e a fuoco.
Per l’Oltrepo son giornate di vera tregenda: e tanto più feroce è il comportamento
verso le popolazioni laddove i partigiani tentano di resistere.
Con la riconquista di Varzi, abbandonata dai garibaldini ai primi di dicembre,
le forze partigiane si attestano sulle alture alla sinistra della Staffora,
mentre a Peli e a Coli le brigate GL sono impegnate in furiosi combattimenti.
L’attacco e lo sfondamento avvengono il 12 dicembre, nella nebbia e nella neve.
L’affondo è diretto verso l’alta Valle Staffora.
I tedeschi attuano l’ampia manovra avvolgente che dalla valle, dal Tortonese
e dalle valli Liguri converge sui crinali dell’Antola.
È il momento del massimo ripiegamento: Giovà, Capannette, Monte Ebro, Val Borbera,
Capanne di Carrega
( dove si installa un’infermeria ), Cantalupo Ligure sono
i luoghi della ritirata.
Tanto drammatica è ormai la situazione che a S. Sebastiano Curone i responsabili
politici e militari decidono di procedere al momentaneo scioglimento delle formazioni.
L’ultima, non meno drammatica fase è caratterizzata dall’epurazione, dallo sfoltimento
degli organici e dall’occultamento, come condizione essenziale per la sopravvivenza
del movimento partigiano.
Si dà corso all’operazione di ritorno a piccoli gruppi alle posizioni di partenza
attraverso le maglie dello schieramento nemico.
Non che il nemico dia tregua alle formazioni o al gruppo tornato ai luoghi di origine.
Si tratta di contrapporre, semmai, con quell’operazione, ad una tattica mobilissima
una tattica altrettanto mobile.
Tra dicembre e febbraio la lotta si viene frantumando in una serie di episodi
nei quali si distingue la ferocia della Sichereits Abteilung e il cui minimo denominatore
è una caccia all’uomo, che si lascia alle spalle una scia di violenza e di voglia di vendetta.
È l’inverno delle "buche", scavate nella neve.
Non si spara se non si è attaccati, non solo per la disparità delle forze in campo,
ma anche per salvare la popolazione, provatissima, da sicure rappresaglie.

 

 

La ripresa è, però, evidente fin dai primi di febbraio, quando il grosso delle forze
che ha operato il rastrellamento abbandona la zona e il fronte torna ad avanzare verso Nord.
Restano i presidi, per lo più fascisti, di varia entità.
Anche in Oltrepo si assiste a una cauta e lenta riorganizzazione.
Il 18 febbraio il Comando Divisione dell’ "Aliotta" si ricostituisce a Ca d’Agosto,
presso Torre degli Alberi: poi torna a Zavattarello.
Quattro giorni prima la primavera era arrivata in anticipo con lo scontro,
condotto in campo aperto, delle "Ceneri".
Ai primi di marzo, con la difesa di Zavattarello e la battaglia di Costapelata
è definitivamente respinto l’estremo attacco concentrico dalle valli Scuropasso e Ardivestra,
che mirava a scardinare il sistema difensivo faticosamente ricostruito
e imperniato su Zavattarello.
A metà marzo Varzi, abbandonata dai nazifascisti, è ripresa.
Tra la fine di febbraio e i primi di aprile si riorganizzano le formazioni.
Il 27 febbraio a Casa Marchese è costituito il
Comando operativo "Settore Oltrepo pavese"
ancora subordinato alle direttive del Comando VI Zona.
L’accordo, ribadito e perfezionato il 9 aprile sancisce l’assetto finale
delle formazioni dipendenti dal "Settore Operativo Oltrepo Pavese".
All’ordine del giorno si pone, ormai, la discesa in pianura, che ha come obiettivi
i centri maggiori posti lungo la via Emilia.
L’ "Aliotta" discende la Valle Staffora, puntando su Voghera;
la "Gramsci" si dirige su Casteggio; la "Masia" su Broni;
la Matteotti" su Stradella.
L’insurrezione dura in provincia di Pavia poco più di quattro giorni.
Attraversato il Po e occupato il capoluogo fin dal pomeriggio, le formazioni dell’Oltrepo Pavese sono le prime ad entrare in Milano la sera stessa del 26 aprile, due giorni prima di quelle dell’Ossola e cinque giorni prima degli americani della V Armata.
E proprio tra quei partigiani dell’Oltrepo Pavese sono scelti gli uomini per la missione di Dongo.